Visioni

Lucia, la rivoluzionaria che capovolge il mondo

Lucia, la rivoluzionaria che capovolge il mondoUna scena da «Capri-Revolution»

Al cinema «Capri-Revolution» di Mario Martone si svolge all’inizio del secolo scorso ma parla al presente. Una pastora, una comune di artisti, l’happening e la scoperta del corpo, il socialismo, l’arrivo della guerra

Pubblicato quasi 6 anni faEdizione del 20 dicembre 2018

Il film di Mario Martone, nel concorso della scorsa Mostra di Venezia, è stata una di quelle visioni folgoranti – e sempre più rare – su cui non è semplice tornare a distanza di pochi mesi, anche perché è un «oggetto» composito che a ogni sguardo spalanca suggestioni nuove, passaggio importante nella ricerca di un artista che tra teatro e schermo riesce a cogliere oltre il tempo la contemporaneità. Era così il Risorgimento di Noi credevamo e l’estremismo esistenziale di Leopardi ne Il giovane favoloso, ed è così per Capri-Revolution (di cui è autore anche della sceneggiatura insieme a Ippolita Di Majo) che conferma – appunto – il talento di uno sguardo capace, come pochi, di mettere al centro la complessità mai dogmatica di una narrazione. Quello di Martone è un cinema che cerca la realtà lungo i bordi dell’immagine (e dell’immaginario), in ciò cheche solleva il dubbio più che offrire certezze, attraverso l’esperienza di pratiche artistiche diverse messe in relazione con leggerezza. E Capri-Revolution è anche un film che rimanda a una linea precisa del cinema italiano, che va da Rossellini a Bertolucci col quale dialoga apertamente in una forma d’opera come spazio possibile dei fili della Storia, di un racconto che ne cerca le traiettorie meno evidenti e personali.
Lucia, la protagonista, è una pastora, tutto il giorno sta sotto al sole dietro alle capre, si inerpica tra i sassi e i cespugli di quel pezzo di terra che ha la stessa potenza ruvida e sensuale del suo sguardo. A casa i fratelli dettano legge, la madre asseconda l’ordine familiare, il padre amatissimo è ammalato, i polmoni glieli ha divorati la fabbrica dove è andato a lavorare. Capri, Italia. L’isola aspetta l’arrivo dell’elettricità, il secolo da poco nato sbandiera la sua innocenza contro la guerra che sta arrivando (siamo nel 1914), le sue idee di futuro si incontrano in mezzo al mare, il credo socialista del giovane medico condotto che vede il primo conflitto mondiale come una possibile rivoluzione delle classi, e quello di un artista tedesco, guida «spirituale» di una comune in cui tutti vivono insieme provando a rompere – non senza contraddizioni – le «norme» di famiglia, coppia, sentimenti.

IL CORPO è la materia di questa sperimentazione, un corpo politico e poetico la cui liberazione dagli abiti, dalle costrizioni si fa gesto artistico e di sovversione, capovolge l’ordine della società verso un’utopia da inventare. Lucia li vede, comincia a seguirli, si vestono di bianco, ballano la notte nel bosco, i passi sintonizzati con le avanguardie della danza (si parla a un certo punto di Mary Wigman), la stessa tensione che tornerà decenni più tardi, negli anni Settanta, tra performance artistica e ribellione.

L’ISPIRAZIONE iniziale del film è stata la figura di Karl Diefenbach, artista vissuto a Capri tra il 1900 e il 1913, anno della sua morte, la cui filosofia verrà rielaborata da Joseph Beuys; negli happening del suo gruppo il sesso è libero, le donne e gli uomini hanno lo stesso posto, i bambini sono di tutti, ci si cura con l’omeopatia, il corpo deve essere forte ma senza superomismi (anche se tra qualcuno circolano seduzioni che lasciano presagire il nazismo a venire). Sono vegani – «non mangio cose morte» dirà Lucia – a cui Marianna Fontana infonde una speciale vitalità – mettendo in fuga il marito scelto dai fratelli per sistemarla. Nella comune la ragazza impara a leggere, a scrivere, a parlare inglese, a danzare seguendo il ritmo interiore (splendide coreografie di Raffaella Giordano). Sembra di stare a Parco Lambro (filmato da Grifi), quando ragazze e ragazzi italiani scoprono il femminismo e le battaglie per i diritti, e che togliersi il reggiseno è un gesto che dichiara una nuova visione della vita e della politica.

LUCIA conosce la terra, sa come tirare su un muretto a secco, divora i libri e scopre il piacere con semplicità. Lascia la sua casa e segue Seybu, biondo e carismatico (Reinout Scholten Van Aschat), di lei è innamorato anche il medico (Antonio Folletto), entrambi da qualche parte la pensano in una vita corrispondente ai loro principi. Movimenti e partiti, rivoluzione e post rivoluzionario, sperimentare e fissare dei principi estetici: cosa significa dare una forma? Lucia è un’esploratrice, e una rivoluzionaria, quella sua ostinazione estrema la spingerà di nuovo altrove, verso altri Nuovi Mondi esperienza e di conoscenza – «sono una cattiva figlia» dice alla madre, splendida Donatella Finocchiaro.
Questo magnifico romanzo di formazione femminile (e femminista) – orchestrato dal montaggio di Jacopo Quadri e Natalie Cristiani – verso la libertà e la consapevolezza interroga dunque le forme della politica e con esse quelle dell’arte, del cinema: cosa significa oggi pensare un’immagine «politica», che sappia dialogare coi vuoti e i conflitti fuori dalla protezione – o dalle semplificazioni – delle ideologie? Forse ripartire da quella ricerca di sé come possibile alternativa all’afasia di una lingua (linguaggio) che deve ritrovare la propria capacità di dialogo, di cui anche il gesto artistico partecipa, tra distacco e formattazione; come quel palcoscenico che per le performance del gruppo sostituisce all’improvviso il bosco, rischio di un immaginario che non riesce più a reinventare la realtà.

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