Luci e ombre, il sogno ad occhi aperti di Mimosa nel cinema
Cinema Nelle sale «Finalmente l’alba» di Saverio Costanzo, liberamente ispirato all’assassinio di Wilma Montesi
Cinema Nelle sale «Finalmente l’alba» di Saverio Costanzo, liberamente ispirato all’assassinio di Wilma Montesi
Dalla parte delle cose – i sogni, i discorsi delle cose –, superfici che vedono, suonano, addirittura immaginano al di là dell’imperio del soggetto, dello spettatore, non stanno lì nel quadro a subire lo sguardo altrui, ma ricambiano le occhiate, traguardano in varie direzioni: sembrerebbe essere questa la postura, l’inclinazione (proprio rispetto a una qualche fonte luminosa) di Finalmente l’alba di Saverio Costanzo – in sala da mercoledì scorso in una versione più breve rispetto a quella che fu presentata in concorso alla scorsa Mostra di Venezia, cosa che mi pare le abbia giovato – che conferma una volta di più l’indole riflessiva, anche in certa misura teorica, di tutto il suo cinema.
Un cinema che tenta, mette alla prova i meccanismi, le articolazioni del proprio essere linguaggio prismatico, a evocazione e a narrazione spinte, che non dà per scontato l’uso strumentale delle immagini ai fini del semplice racconto, ma cerca soluzioni plastiche, narrative, varie angolazioni da cui guardare.
IN EFFETTI Hungry Hearts (2014) era fatto di lunghe sedute di soggettive libere indirette che non imponevano il punto di vista dell’autore ma mettevano lo spettatore sullo stesso piano di consapevolezza dei personaggi: chi guarda non sa nulla di più di quello che sanno i protagonisti o i deuteragonisti (la madre di lui incastonata nella cornice, nella «crosta» chiaroscura di casa sua, specie di reliquiario, di lugubre fondaco di oggetti e di ombre), niente di più di quello che sentono, quello che rivendicano dentro la rapsodia di ombre che è la vera carne del film.
Così Finalmente l’alba è il sogno lungo una notte, la «saison en enfer» di una ragazza dalla semplicità occhiuta, stupefatta, Mimosa, già promessa sposa, assegnata dal pater familias al bolso, grigio poliziotto secondo i crismi dell’Italia del dopoguerra.
Appassionata di cinema ha gli occhi sempre spalancati sul «fenomeno», sul sortilegio attraverso cui si fanno, si sfanno le forme sullo schermo e ancora prima (o dopo) sul set e ancora sempre nel microcosmo di Finalmente l’alba, specie di labirinto le cui porte sono i tanti schermi che si aprono uno dopo l’altro, uno dentro l’altro, fino all’atrio aperto sul deserto, la sequenza straordinaria di un peplum girato a tempo di elettronica.
Il cinema di Costanzo è affascinante perché gronda di una luce inquieta, di una fibra, una fotosintesi che ha in sé qualcosa di cupo, di umbratile;
Film come zona d’ombra allora, una zona morta (o la zona di una morta): intervallo in cui le sagome compaiono, scompaiono all’infinito, in cui è possibile perpetuare la vita, intrappolarla nel cristallo dell’immagine, riscattarla dentro la carne impalpabile, luminosa dell’immaginazione.
Sono condizioni di luce, soluzioni di chiaroscuro, splendenti livori di un’atmosfera colta nella sua catastrofe: il cinema di Costanzo è affascinante perché gronda di una luce inquieta, di una fibra, una fotosintesi che ha in sé qualcosa di cupo, di umbratile; tutta una teoria della consunzione, del numinoso fiorire, sfiorire delle forme sotto la luce smorta del cinema.
MA CHI SOGNA? Forse non è neppure Mimosa a sognare, ridotta a cosa che giace a riva, nelle cui sinapsi sopravviva una qualche pulsione elettrica, un residuo eidetico, mnemonico. Si direbbe che sia il dispositivo stesso a sognare; il segno, la possibilità di segnare lo spazio vuoto, di significare nel mezzo del nulla, una volta che sia sopraggiunta una qualche morte.
È L’«IMMAGINE dialettica», vagante nello spazio e nel tempo, pronta a emendare le storture della storia (in questo caso l’assassinio di Wilma Montesi) e a denunciare quelle che circondano le storie, i film, tutto il corollario di ipocrisie, di inanità, soprusi perpetrati da un’umanità bieca – patinata o sudaticcia, scrignuta o parassita – che anima, fa materialmente il cinema.
E a testimonianza della fertile ambiguità del film, tutt’uno con l’aria che si respira, la luce da cui ci si sente oppressi o sollevati, è proprio una di queste personalità, Josephine Esperanto che, con Pavese, letteralmente crea il finale del film, la leonessa, il «fenomeno», la visione che ora cammina a fianco di Mimosa, viva, con «il tumulto nel cuore nella luce smarrita».
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