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Luca Peretti, storia di un film africano mai girato

Luca Peretti, storia di un film africano mai girato

Il film «Un dio nero un diavolo bianco», da Marsilio

Pubblicato 11 mesi faEdizione del 18 novembre 2023

L’uscita del libro di Luca Peretti Un dio nero un diavolo bianco. Storia di un film non fatto tra Algeria, Eni e Sartre, pubblicato dalla casa editrice Marsilio di Venezia, merita più di qualche attenzione. Il libro è molte cose insieme: a un primo livello si tratta della pubblicazione della sceneggiatura inedita di un film anticolonialista scritto nei primi anni Sessanta, che ha visto la collaborazione di intellettuali di primo piano del Novecento europeo come Jean-Paul Sartre e Franco Solinas.

Il progetto era quello di realizzare un grande film di montaggio che sarebbe stato diretto da Sergio Spina, utilizzando per tre quarti materiali d’archivio già esistenti e trattando la guerra d’Algeria (1954-1962) – «la più sanguinosa delle guerre coloniali, così esemplare da apparire come inventata per spiegare il mostruoso meccanismo dello sfruttamento coloniale» – come paradigma per la storia di molte esperienze coloniali in tutto il mondo e nel corso di svariati secoli. Conservata e ritrovata presso l’Archivio Storico dell’ENI, la sceneggiatura è un dettagliato piano di lavoro sul quale Sartre sarebbe nuovamente intervenuto in seguito, con il commento definitivo scritto una volta terminato il montaggio. Cosa che, per motivi che sono oggetto di interrogazione, non è mai potuta avvenire: il libro è quindi anche, nelle prime ottanta pagine, uno studio assai originale sulle ragioni per le quali il film non è stato fatto, o sul perché se è stato girato almeno in parte (come alcuni indizi lascerebbero pensare) non è certamente mai stato ultimato.

Vale la pena quindi affidarsi alla guida di Peretti e concentrarsi sul suo testo, anche perché un lavoro sulle ipotesi per cui un film non è stato fatto è qualcosa di lontano dalle abitudini ordinarie non soltanto del lettore comune, ma anche del panorama usuale degli studi sul cinema.

Questo studio è quindi innanzitutto un’indagine che porta al centro di una serie di questioni fondamentali dell’Italia del secondo dopoguerra e che si contraddistingue per la quantità e soprattutto per la diversità delle fonti consultate: dai dati SIAE dell’Assessorato alla Cultura di Roma ai carteggi di Sartre conservati alla Bibliothèque Nationale de France, dai faldoni della Direzione Generale dello Spettacolo alle carte del Partito Comunista Italiano passando per gli archivi britannici e algerini, cui si aggiunge una vasta bibliografia specialistica su storia, politica, cinema. Questi materiali nutrono l’analisi riuscendo a non appesantirla, e va sottolineato il rigore dell’autore nel condurre l’indagine senza mai perdere di vista il quadro storico e politico più ampio, rendendola così appassionante e limpida anche per il lettore meno esperto.

Per introdurre la lettura della sceneggiatura Peretti comincia infatti col ricostruire il contesto storico all’interno del quale nasce un progetto come Un dio nero un diavolo bianco, e di conseguenza i rapporti tra Italia e Algeria negli anni Cinquanta, la situazione politica internazionale e il posizionamento dell’Italia e dei vari partiti nel momento in cui, come chiosava ironicamente Simone De Beauvoir, «gli italiani, che non hanno più colonie, sono tutti anticolonialisti».

E si racconta anche del ruolo strategico di quella che Mario Pirani aveva definito la «diplomazia parallela» dell’ENI di Enrico Mattei, con la sua posizione nei confronti dei paesi in via di decolonizzazione. L’azienda di Mattei avrebbe in effetti dovuto produrre questo film, che inizialmente sembra dovesse intitolarsi Il colonialismo o La fine del colonialismo; non era certo una novità per una compagnia che aveva già prodotto opere di Bernardo Bertolucci, Joris Ivens, Gillo Pontecorvo e che assegnava al cinema, come altre aziende dell’epoca, un ruolo essenziale per la sua strategia.

La produzione dell’ENI è inquadrata da Peretti nel contesto più ampio del cinema industriale, e del lavoro che vedeva molti intellettuali impiegati nelle aziende di un’Italia che si avviava al boom economico – da Franco Fortini a Paolo Volponi, da Giorgio Ruffolo a Giovanni Giudici, da Manlio Magini a Ottiero Ottieri, oltre a registi tra cui spiccano i nomi di Nelo Risi ed Ermanno Olmi.

Il libro è strutturato dunque come una serie di scatole che si aprono e hanno degli interpreti sempre un po’ misteriosi, a partire evidentemente dalla figura di Enrico Mattei, nello stesso tempo protagonista e comparsa di questa storia: a lui sono legate le sorti del film, della sua morte si parla esplicitamente nella sceneggiatura. E poi ci sono i personaggi secondari, non meno fondamentali agli occhi di Peretti: il produttore Tony Colantuoni (partigiano, produttore di film con Franchi e Ingrassia, Tognazzi e Vianello, ma anche soggettista di Salon Kitty di Tinto Brass e regista di un documentario sulle abitudini sessuali dei finlandesi), il passeur Giovanni Pirelli (traduttore di Frantz Fanon e curatore delle lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana ed europea, nonché delle lettere della rivoluzione algerina) e altre figure che è bello scoprire nel corso della lettura, che assume a tratti i contorni di una spy story. Spesso le pagine sono poi segnate dalle rapide indicazioni metodologiche di uno storico che non smette di interrogarsi sul metodo che sta adottando, con l’ambizione non celata di suggerire nuovi orizzonti per la ricerca storica in ambito cinematografico e nello stesso tempo con la cautela (fatta di condizionali e di espressioni come «per ora», «non è impossibile che», «non si può escludere che», «per quel che sappiamo» ecc.) che si deve a un oggetto anomalo come quello di cui si tratta.

Peretti ha il coraggio di affrontare i rischi di una materia viva, che lo conducono ad esaminare anche le trasformazioni possibili del progetto in altre opere – oggi si direbbe intermediali – come quella dell’artista napoletano Danilo Correale, che in Diranno che li ho uccisi io (2018) lavora sulla messa in scena di sei film non fatti, tra cui proprio Un dio nero un diavolo bianco.

Chiude il volume un apparato iconografico che riproduce alcune foto dei viaggi di Gillo Pontecorvo e Franco Solinas per preparare La battaglia di Algeri. Solinas è in effetti l’anello di congiunzione tra i due film, e diverse tracce di questo progetto mai realizzato – le scene di tortura, la sequenza dello sciopero e altre immagini e motivi che creano uno stretto legame tra i due lavori – sembrerebbero essere confluite direttamente nel più celebre dei film italiani anticolonialisti del periodo. Un dio nero si è dunque trasformato in La battaglia di Algeri, ed è questa la ragione per cui non è mai stato terminato? «Difficile concludere davvero in questo marasma – scrive l’autore – visto che altri documenti potrebbero emergere». E se il lettore potrebbe avere il timore di rimanere sospeso nella necessaria provvisorietà degli esiti di questa indagine, è difficile che non riconosca in essa un contributo vitale in direzione dell’apertura di un nuovo campo.

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