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Luca Giordano, intelligenza con i maestri

Luca Giordano, intelligenza con i maestriLuca Giordano, "Autoritratto", Napoli, Pio Monte della Misericordia

Giuseppe Scavizzi, "Luca Giordano La vita e le opere", Arte’m Dopo una vita trascorsa sul pittore barocco napoletano, Giuseppe Scavizzi offre un saggio, corposo ma agile, di preciso riepilogo. La «frettolosità» del maestro vista come cifra stilistica che accorda una galassia mutevole di riferimenti

Pubblicato quasi 6 anni faEdizione del 6 gennaio 2019

La pittura di Luca Giordano oscilla sempre tra il chiaro e lo scuro, il sacro e il profano, il nobile e il popolaresco. È difficile dire dove dia il meglio di sé, se nel quotidiano o nel sublime, se nel brillante San Gennaro che intercede per la fine della peste di Capodimonte o nei malinconici Filosofi che premono in direzione contraria, affumicando quelle visioni. Smaliziato alla pratica più che alla teoria, il pittore forgiò un modo personalissimo di lavorare con le immagini, acquisendo all’occasione sfumature proprie e differenti. Il Bacco e Arianna del Chrysler Museum di Norfolk (Usa), ad esempio, cova una fitta rete di rimandi – la luminosità suadente dell’arte veneziana del Cinquecento, rinverdita nel segno di Poussin, ma anche la forza narrativa di Pietro da Cortona e perfino una libera traduzione della Notte di Michelangelo – e traccia un resoconto eloquente della larghezza visiva dell’artista all’altezza della sua maturità. Emblematico al punto da campeggiare sulla copertina del nuovo libro di Giuseppe Scavizzi incentrato sul pittore napoletano: Luca Giordano La vita e le opere (Arte’m, pp. 304, euro 27,00).
Non è una monografia in senso stretto, ma un corposo saggio critico aperto al pubblico con precisione e facilità narrativa. La completezza cede il passo all’accessibilità ma, in fondo, conciliare un catalogo di migliaia di opere con un formato tascabile sarebbe stato altrimenti impossibile. Tuttavia l’inconsueta versione abbreviata non fa torto alla reputazione del Giordano. La lente dello studioso (con alle spalle lunghi trascorsi giordaneschi: dalla monumentale Opera Omnia insieme a Oreste Ferrari del 1966 al Luca Giordano giovane di qualche anno fa) si dirige ordinatamente in senso cronologico e tenta una pacificazione nel brusio scomposto dei biografi (ad esempio, recupera la validità della Relatione della Vita di Luca Giordano del 1681), problematizzando le questioni più importanti.
Tra queste, la parte iniziale merita un’attenzione speciale perché è dentro i confini della gioventù giordanesca che si sedimentano le questioni più complicate e affascinanti. Luca era figlio del modesto pittore Antonio e non poté contare su un’educazione ordinata. Di certo non fu allievo dello spagnolo Jusepe de Ribera, la cui influenza sulle creazioni più crude è innegabile ma circoscritta ad anni molto avanzati. A causa della mancanza di un iter formativo tradizionale, il Giordano mancò di inclinazioni estetiche precise, attingendo a una galassia di riferimenti mutevole, contraddittoria e disordinata. Da Albrecht Dürer (si veda la sgangherata Guarigione dello storpio della Galleria Nazionale di Atene) a Giulio Romano e Polidoro da Caravaggio: tutto serviva ad alimentare la sua intelligenza visiva. La cosa singolare è che al cospetto di quei maestri è l’apprendista a guidare il gioco, finendo col trasformare l’imitazione da sistema di esercizio in un metodo stabile di lavoro da cui trarre proficuo vantaggio per rendere le sue aspirazioni più precise. Il confronto costante con le grandezze della pittura dichiara, infatti, la sua voglia di misurarsi prima, di affermarsi poi, infine di espandersi. Davanti ai nostri occhi vediamo i molteplici mutamenti di una mente ossessionata dall’arricchimento e il campo di sperimentazione allargarsi continuamente.
Il tono dell’autore si fa a tratti apologetico. Non tanto verso l’indiscutibile reputazione del Giordano pittore ma verso il Luca uomo. Scavizzi indaga con occhio benevolo le questioni più spinose e lo difende dalle accuse ricorrenti di cupidigia, frettolosità e opportunismo (una buona fede che non tutti gli studiosi sono disposti ad accordargli). Su tutti resta in piedi un dubbio: Luca Giordano fu un falsario? Il suo culto per l’ibridazione viene spesso associato all’accusa di falsificazione. Anzi fu l’artista per primo ad alimentarla con la trasparenza delle allusioni. Si capisce che chi lo incontra sia coinvolto in un costante gioco di ambiguità. Prendiamo il tondo con la Sacra famiglia con san Giovannino del Prado. Va di scena l’incontro sperimentale tra bellezze raffaellesche e un’atmosfera di caldo cromatismo alla maniera di Pier Francesco Mola. È un impasto tutto arbitrario, ma genuino. Il Tributo a Velázquez della National Gallery di Londra, a lungo catalogato col nome dello spagnolo per la reinterpretazione del tema de Las Meninas, è un’altra felice espressione di questo metodo. Basterebbe l’originalità d’interpretazione per comprendere come queste opere non possano essere liquidate come contraffazioni.
A ben guardare, se è vero che l’artista riesce a trasmettere un senso di compiuta empatia con gli aspirati maestri, è anche innegabile che il substrato giordanesco resta lo stesso riconoscibilissimo. I suoi quadri sono una palude che inghiotte tutto e restituisce con bell’intuito una nuova vitalità espressiva. Non basta allora la dissimulazione di sé con la firma del modello rifatto per far addebitare sul suo conto lo stigma del sofisticatore. «Non vi è dubbio che fu il padre a portarlo sulla cattiva strada», arriva a dire l’autore, addebitando sul conto del misconosciuto Antonio il disinvolto citazionismo del figlio e dimostrandosi disposto solo occasionalmente a concedere a quest’ultimo la malafede di aver smerciato falsi.
Giuseppe Scavizzi disegna con indubbia perizia il profilo di un professionista di alta intelligenza visiva, capace di avvolgere le sue opere di una ricca rete di allegorie, a volte sgrammaticate e oscure, e di contribuire alla stesura compositiva delle creazioni più impegnative. Come il protagonista di un’avventura picaresca, il pittore, che non poteva vantare un’ascendenza professionale celebre, condusse una carriera di ampi consensi. A segnare l’apice della sua gloria furono la volta dell’Escalera in Spagna e il Trionfo di Giuditta nella Certosa di San Martino a Napoli, che danno il segno di un’ascesa compiuta e tracciano l’epilogo di una parabola mirabolante. Con le progressioni più estreme Luca Giordano segna la strada per il Settecento (da Fragonard a Goya) e svolge una funzione d’avanguardia, avvicinandoci al mondo nuovo di una squisitezza quasi rococò, in cui la forma tende a smaterializzarsi.
Com’è stato annotato anni fa da Giuliano Briganti, il suo contributo va oltre. Addirittura in direzione di un’«unione culturale super-regionale» dell’Europa figurativa, in controtendenza rispetto a un’Italia artistica che stava per chiudersi su di sé, frammentandosi entro i confini locali. Questo fatto conferma ancora una volta l’incredibile forza vitale che pervade l’immaginazione di un genio come Luca Giordano.

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