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Luca Ferri, nemesi divine

Luca Ferri, nemesi divine

Il film Un documentario per il Divino Otelma, al Torino Film Festival

Pubblicato quasi 2 anni faEdizione del 26 novembre 2022

Il cinema, diceva qualcuno, sostituisce al nostro sguardo un mondo che si accorda ai nostri desideri. Fino a qui tutto bene, l’affermazione vale ancora. Ma oggi sarebbero necessarie quantomeno due postille: di che tipo di sostituzione di tratterebbe? E poi, quali desideri?

Vita terrena di Amleto Marco Belelli è il nuovo lungometraggio di Luca Ferri, cioè uno dei cineasti contemporanei più anomali e quindi rigorosi che abbiamo oggi in Italia, per il suo lavoro complesso e mai banale sulla forma cinematografica. In sé, l’opera sarebbe facile da descrivere in una battuta: un ritratto del soggetto in questione, meglio noto come il «Divino Otelma», un personaggio pubblico sicuramente conosciuto fra gli spettatori della televisione generalista. Ferri racconta – a modo suo – l’uomo dietro al personaggio (ecco il «film», il riferimento alla «vita terrena» nel titolo), presentando un insieme di momenti in cui Amleto Marco Belelli parla di diverse questioni inerenti alla propria vita. Ma non c’è solo questo. O meglio: tutto questo è frutto di un modo di vedere (il «cinema») su cui val la pena soffermarsi, per due motivi.

Il primo motivo ha a che fare con la genesi del progetto. Il film di Ferri nasce e si sviluppa in piena pandemia, come una specie di ripensamento di una intenzione originaria. Impossibilitato a incontrare il suo soggetto, il cineasta sceglie di procedere registrando i suoi colloqui con il «Divino Otelma» a distanza, via Skype, optando quindi per una tipologia di immagine dalle caratteristiche che sono notoriamente tutt’altro che espressive. Se considerata di per sé, questa scelta può forse sembrare una resa ad una sorta di sciatteria visiva. Tuttavia, Ferri la riscatta configurando i primi piani del «Divino Otelma» in immagini composite: su di un passe-partout nero vengono segnalate le date ed i temi degli interventi incorporati nell’opera. Ma non solo. Questo gusto per il razionalismo della composizione o, se si vuole, per la compresenza/sintesi formale di elementi eterogenei, lo si vede anche, per esempio, nella sequenza iniziale (vediamo materiale d’archivio), nell’inclusione di «vuoti» visivi del colloquio (le icone Skype), nella serialità dello sviluppo dell’opera (gli incontri proseguono per 52 settimane). Per non parlare delle voci fuori campo. Sono stilemi ricorrenti nella produzione di Ferri – che oggi, in Italia, fa un uso creativo della tecnologia di massa come nessuno – ma che in questo film riescono ad accentuare ancora di più la dimensione «concettuale» (non concettosa!) del suo fare cinema. Perché questo? Perché aiuterebbero a far capire come l’operazione del cineasta non sia solo quella di raccontare una determinata figura, ma anche quella di far passare tale racconto tra le pieghe – e le piaghe – di un immaginario anonimo e massificato come quello della comunicazione online. In tutto questo, si potrebbe dire che il Covid sia stato una specie di divina nemesi estetica per il cineasta, una costrizione al proprio sguardo che, forse proprio per questo, gli ha permesso di fare del cinema focalizzandosi non tanto sul mondo delle immagini ma su di uno senza immagini.

Quanto al secondo motivo, il riferimento sarebbe – con buona pace di tutti – alla morte. Il titolo ne è già una sorta di allusione; poi, con lo sviluppo dell’opera, il tema emergerebbe sensibilmente. Ma anche in questo caso, si può forse parlare di morte come di un qualcosa di teorico, sotto il segno della limitatezza/aleatorietà della comunicazione umana: per esempio, nelle conversazioni che avvengono via Skype; nell’isolamento (pandemico); nel rapporto con l’altrove/l’assenza (il fuori-campo, i defunti). Senza dimenticare la natura intermittente delle immagini dei collegamenti e delle riprese del «Divino Otelma» incluse nel film. Verrebbe quasi da dire che Ferri abbia realizzato un lavoro in cui l’idea di morte sia, fatalmente, un’altra nemesi divina, qualcosa in grado di farci interrogare sul nostro desiderio di vedere.

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