Lovecraft gentiluomo di Providence, a fumetti
Sono molti i fumettisti ad essersi occupati dello scrittore Howard Phillips Lovecraft: alcuni autori hanno prodotto trasposizioni dei suoi racconti (si veda il volume Erik Kriek, per Eris Edizioni, o quelli del catalogo NPE, dove spicca un incredibile Dino Battaglia) mentre altri ne hanno raccontato la vita (come Nicolavitch con i disegnatori Gervasio e Aon per Saldapress). Ma la coppia composta dallo sceneggiatore Marco Taddei e dal disegnatore Maurizio Lacavalla, che firma HPL. Una vita di Lovecraft (BD edizioni), si è cimentata in un’esperienza narrativa singolare e visivamente disturbante, del tutto in linea con la sensazione orrorifica che suscita la lettura del maestro di Providence. Lo dimostrano le tavole cupe in cui si percepisce tutta la temperatura dell’incubo, che si possono vedere ancora oggi e domani a Bologna, esposte a Officina Artierranti.
Degli aspetti grafici, di quelli relativi alla scrittura e alla costruzione narrativa abbiamo parlato con gli autori a Lucca Comics and Games.
Maurizio Lacavalla (M.L. di seguito) non è la prima volta che ti dedichi alla biografia di uno scrittore; nel 2020 usciva infatti «Alfabeto Simenon», scritto da Alberto Schiavone. Quali punti di contatto tra i due lavori, a parte il nero che riempie le tue tavole?
In entrambi i casi sono entrato in contatto con l’opera degli scrittori in occasione del progetto. Entrambi sono diventati per me una sorta di specchio, in loro ho ritrovato ansie, paure e dubbi che come creatore sono anche i miei.
I mostri, i fantasmi, le creature terrificanti che popolano la produzione letteraria di Lovecraft entrano a far parte del racconto della sua vita. Da dove vengono le fattezze di queste creature?
M.L. È stato complicato, il suo immaginario è molto codificato, profondamente iconografico.
Marco Taddei (M.T. di seguito): È stato un bene che Maurizio non conoscesse l’immaginario oscuro dello scrittore e questo è, come dice divenuto uno specchio per lui. Solo così è possibile che lo diventi anche per il lettore: Lovecraft ha sì un immaginario tenebroso, ma è quello che determina la sua volontà di sopravvivere e di interagire con il mondo. A dispetto dell’aura di recluso, Lovecraft era una persona vivace; lo dimostrano le moltissime lettere, grazie alle quali le sue idee non solo letterarie, sono circolate influenzando un’intera generazione di grandi scrittori, dando loro consigli e spunti. Il progetto nasce dieci anni fa; la storia era divisa in dieci capitoli e ognuno doveva essere affidato a un disegnatore diverso. Abbiamo mantenuto la riflessione sul lavoro di Lovecraft e sull’esperienza della scrittura per un simile autore; abbiamo ricostruito uno pseudo pensiero di Lovecraft, cercando di immergersi come una bustina di tè nel suo petrolio, di immaginare cosa potesse succedere nella sua mente in certe circostanze della sua vita.
Il pensiero di saperci fatti di atomi, di organi, dava a Lovecraft la consapevolezza della pochezza del ruolo dell’uomo nel cosmo mi sembra molto attuale.
M.T. Certo; tra l’altro leggendo le sue opere si possono ritagliare facilmente le parti orrorifiche dell’immaginario legato per esempio a Chtulu, e rimane un gran pezzo di carne, della sua visione meccanicistica, pragmatica, anti antropocentrica. Questa visione si specchia nella sua letteratura; basti pensare agli incipit mutuati da Edgar Allan Poe: sono tesi, assunti dai quali si sviluppa il racconto. Lo stesso accade nelle lettere, dove senza evangelizzare, espone le sue teorie, lasciandosi andare alla speculazione.
C’è una sequenza in cui C.M. Eddy, suo amico e scrittore di Providence, chiede in modo diretto a H.P. Lovecraft come una persona gentile e distinta come lui possa creare mondi tanto orribili e storie abominevoli. I lettori si pongono la stessa domanda?
M.T. Non saprei; leggendo Lovecraft ci si chiede immediatamente chi sia la persona, viene voglia di indagare. Si capisce che era un intellettuale.
M.L. Le lettere oscillano tra la simpatia e la tenerezza, a me hanno suscitato tanta compassione, nel senso etimologico del termine. La sua sensibilità e dolcezza contrastano con l’epiteto de «Il solitario di Providence», ormai antiquato, al quale si preferisce oggi «il gentiluomo».
Sin dall’infanzia, segnata dai lutti, si rintraccia in Lovecraft un gravoso senso di responsabilità. Allo stesso tempo si respira anche una spinta verso l’evasione. Che ne pensate e come avete raccontato questa complessità?
M.T. Più che esprimere sé stesso, uno scrittore cerca con la propria opera di indagare e scavare. Il gentiluomo Lovecraft che ha avuto il coraggio di portare avanti la sua passione per la letteratura classica e per l’astronomia, era uno scienziato e un’artista. Nella dimensione di miglioramento del sé nella sua opera, era un epicureo. Quindi in un certo senso è normale che l’autore sia lontano dalla persona: il testo sarà sempre migliore, poiché più sincero della persona.
Inoltre il pensiero di H.P.L. è al di fuori, o meglio dopo il tempo, inteso come dimensione da raggiungere. Per questo Chtulu è un doppio del padre morto, mi si conceda lo spoiler: è eterno, attende un incontro che solo la fine della morte stessa, del tempo, può generare. Allora, tutte le cose morte torneranno a casa. Lovecraft è un uomo del New England, profondamente legato alla famiglia, al senso di dimora.
La città di Providence è come un altro personaggio del libro…
M.L. Sì, è un innegabile centro culturale e forse lì l’acqua è avvelenata per aver dato i natali ad artisti così particolari: Cormac Mc Carthy, i Sonic Youth e i Lightning Bolt per la musica, il collettivo di fumettisti con Matt Brinkman, i Fort Thunder. Ho cercato di immedesimarmi nel suo rapporto con la città.
M.T. Sulla sua lapide c’è scritto «I am Providence»: Lovecraft afferma di essere la città che muore e che cambia. E paradossalmente amava Providence conoscendone comunque una zona ristretta, tra l’altro elitaria. La descrive come se fosse uno spazio urbano raccolto, ma in realtà era già molto grande all’epoca. Interessante anche la riflessione sui paesaggi: tornato da New York inizia a esplorare le zone del New England, alla ricerca di momenti in cui riusciva a trascendere dall’epoca in cui viveva, si appassiona all’architettura, da dettagli delle costruzioni.
Come un ulteriore tentativo di metter in discussione le dimensioni spazio temporali?
M.T. Esattamente. Per superare «anche la morte può morire», un mantra, lui spera che il tempo vada al contrario ed esprime la volontà di vedere il mondo com’era risalendo a un’epoca di quattro miliardi di anni prima: secondo Lovecraft alieni e extraterrestri avrebbero colonizzato il mondo prima dell’avvento dell’essere umano. Anche il filosofo Nick Land, uno dei fondatori del gruppo CCRU sosteneva che nella stessa epoca la terra avesse subìto il geotrauma, una ferita ancora presente in ogni essere. Il grido lovecraftiano traduce lo stesso dolore.
Perché avete scelto l’articolo indeterminativo nel sottotitolo «una» vita di Lovecraft?
M.T. Perché la nostra è speculazione, ci prendiamo una responsabilità, come se sbirciassimo all’interno della sua esistenza.
M.L. È una possibilità, come una porta aperta. Ho immaginato l’incipit di una poesia di T.S. Eliot, quando nei Quattro quartetti dice di scendere per un corridoio e «aprire la porta che non aprimmo». Abbiamo cercato di vedere che forma avrebbe potuto avere la vita dell’autore.
A proposito di aperture: solo nel finale lo scrittore apre una lettera scritta dal padre prima di morire e occultatagli per anni dalla madre. Dato reale o finzione?
M.T. È l’unico elemento fittizio che abbiamo inserito: la lettera è il mistero irrisolto del nostro thriller filosofico. È ciò che rimane del padre, di cui H.P.L. non parlava spesso sebbene ne fosse profondamente influenzato. Il rapporto con il padre è il grande rimosso. Anche Dürrenmatt offre una lente interessante, come nel nostro incipit, «la paura è quella cosa che ti fa fischiettare mentre scendi in cantina». È quello che ti porta a scrivere, così come esorcizzare la solitudine, altro sinonimo della scrittura.
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