Reduce da Venezia, dove peraltro è stato snobbato dalla giuria, ecco Love Life di Koji Fukada, regista giapponese che invece normalmente gode di un discreto credito in ambito festivaliero, da Cannes a Locarno. Va subito detto che la vicenda raccontata ha momenti di devastante tristezza, anche perché alla tragedia che si compie poco dopo l’inizio del film, si aggiunge la vera disperazione della solitudine umana, dell’impossibilità di condividere appieno il dolore.

TUTTO prende le mosse dalla canzone di Akiko Yano, in particolare da un verso che recita «qualunque sia la distanza tra di noi, niente può impedirmi di amarti». Questo brano ha spinto Fukada a creare la storia del film. Taeko e Jiro sono una giovane coppia, allietata dalla presenza del piccolo Keita, giovanissimo campione di Othello. Ma non tutto fila per il verso giusto. Keita non è figlio di Jiro, la moglie lo ha avuto da un precedente matrimonio, fatto che non le viene perdonato dal suocero che la vive come una nuora di seconda scelta. Quando poi la tragedia irrompe casuale e inaspettata nelle loro vite tutto sembra precipitare ulteriormente. Compare anche il primo marito della donna, giapponese-coreano, ma soprattutto sordomuto, ormai ridotto a essere un senzatetto, bugiardo, rancoroso e ruvido verso Taeko che pure rappresenta la sua unica possibilità di comunicare perché il linguaggio dei segni coreano non coincide con quello giapponese. In questo contesto con altissimo tasso di disagio la coppia dei due protagonisti sembra essere destinata alla deriva, il loro amore messo in discussione da tutto quello che sta succedendo. La distanza culturale e comportamentale che abbiamo nei confronti del giapponese medio rischia di rendere ancora più complessa l’adesione al racconto, che invece liberata da inutili domande sul perché, si rivela un’autentica sinfonia sull’amore. Sotto i nostri cieli possono stupire alcune reazioni che ci appaiono fuori luogo, ma non è questo il cuore del film che invece punta tutto sul legame, contraddittorio, problematico, scivoloso eppure avvincente che avvolge i due sino alla fine quando Akiko può liberare il suo canto.
Non c’entra quindi la geografia emotiva, perché alla fine, pur con sfumature diverse, anche da noi esistono suoceri impiccioni e insoddisfatti delle scelte dei figli, che non esitano a creare ulteriori problemi, come se ce ne fosse bisogno.

ANCHE DA NOI può capitare, e capita, che di fronte agli inciampi di un rapporto ci si rivolga verso gli ex, più per trovare conforto che non per elaborare una improbabile alternativa. Perché vivere è complicato e la vita di coppia lo è ancora di più, soprattutto quando il destino decide di mettersi a fare i capricci, creando enormi disagi e dolori. In questo Fukada è straordinario, racconta tutto senza enfasi, con un gran senso della misura e del rispetto, della storia e dell’interlocutore, che molti registi hanno smarrito nel bailamme fracassone che caratterizza troppo cinema contemporaneo, peraltro spesso molto apprezzato dal pubblico.