Visioni

«Louloute», memorie di infanzia tra nostalgia e voglia di libertà

«Louloute», memorie di infanzia tra nostalgia e voglia di libertà

Cinema Si è chiuso il festival francese di La Roche-sur-Yon, un’edizione che ha scommesso sul femminile. Una ragazza e i suoi appunti di bambina nel film vincitore di Hubert Viel

Pubblicato circa 4 anni faEdizione del 23 ottobre 2020

Louloute è una giovane donna a cui capita di addormentarsi un po’ ovunque, persino al parco sotto la pioggia dimenticando la campanella della scuola. Insegnante di storia prova a spiegare agli allievi il senso di «democrazia» ma quelli la contestano, l’ accusano di volerli influenzare – e di «fare politica» – dunque vai con le interrogazioni.

A sorpresa, ovviamente. Il film di Hubert Viel che prende il titolo dal nome, o meglio dal nickname della sua protagonista (Erika Sainte) da bambina ha vinto l’edizione 2020 del festival del film di La Roche – sur – Yon, quest’anno come ogni manifestazione culturale «in presenza» nella tempesta della pandemia e soprattutto all’esordio della nuova direttrice, Charlotte Serrand che ha preso il posto di Paolo Moretti (il delegato generale della Quinzaine di Cannes) – partito per curare a direzione artistica di Les Cinémas du Grütli in Svizzera.

La rassegna francese giunta alla sua undicesima edizione è l’evento di punta della multisala cittadina in cui si svolge – nella Vandea – ma negli ultimi anni ha assunto sempre più una fisionomia «festivaliera» autonoma grazie a una programmazione capace di mescolare le anteprime di stagione e linee di ricerca più eccentriche tra il concorso «Nouvelles vagues» e le «Perspectives».

DOPPIA retrospettiva – una dedicata a Sally Potter in occasione dell’uscita francese del suo nuovo film, The Roads Not Taken – e l’altra a Joanna Hogg, entrambe britanniche, quest’ultima presente anche con The Souvenir, star Tilda Swinton, e un focus sull’americana Julia Hart, il festival ha voluto mettere al centro le registe, una scelta questa che ha attraversato tutto il programma e le sue storie. Nei premi del concorso internazionale (premio della giuria) troviamo The World to Come, il film di Mona Fastvold – in concorso a Venezia – in cui si racconta l’incontro tra due donne, Abigail (Vanessa Kirby) e Tallie (Katherine Waterston) e la loro passione: un desiderio intenso, sin dalla prima volta, un’attrazione che è insieme gioia, complicità: il riconoscersi in un linguaggio comune, quella parola a cui è affidata la loro narrazione, la parola che Tallie annota sulle pagine del suo diario dall’inizio di un nuovo anno, tra righe che sanno dare voce a sentimenti, dolori, solitudine, violenza, traumi feroci – la morte della sua bambina.

LE DONNE nel film si fanno «un mondo che deve venire», che ancora non c’è per loro lì, nei gelidi inverni di tormenta di un’America ottocentesca e di agricoltori, nelle case con mariti assenti o assassini.
Tallie traccia i movimenti del suo (loro) cuore sull’atlante che Abigail le ha donato per il compleanno, il mondo è racchiuso nello spazio dei loro corpi, tra i capelli che si intrecciano, le chiome fulve e ribelli di Abigail e quelle più timide di Tallie. Le righe si fanno stagioni, il tempo si impiglia nelle pagine come le emozioni costrette al segreto in un altrove potente e insieme fragilissimo.
E Louloute? Anche qui il film è costruito interamente su una figura femminile, che per certi aspetti somiglia al regista, almeno in senso anagrafico, capiamo infatti che è una bimba degli anni Ottanta – e lui pure – e al 1988 ci riportano i suoi ricordi di infanzia, alla fattoria dove è cresciuta, e al primo amore alle elementari, un ragazzino timido e biondino a cui chiede di fidanzarsi – perché sono soli entrambi.

MA LEI gli dice lui quando si rivedono adulti e proprio a scuola, dove è arrivato a sostituire un vecchio insegnante, è sempre stata «strana». Già, ma cosa vuol dire «strana»? Una ragazzina fantasiosa, un po’ persa nei suoi affetti, esuberante, che continua a portarsi appiccicata addosso e nei sogni la se stessa piccolina, e come tanti fa fatica a staccarsene. Louise da qualche parte è ancora Louloute nella casa in campagna insieme ai genitori che sembravano felici, ai giochi coi fratelli, alle scoperte tragiche, i polli e l’amata mucca che pure se non faceva il latte il padre non aveva venduto al mercato. Però è grande, e quella realtà lì, di manga e canzonette urlate in macchina non c’è più; il padre se ne è andato, la mamma (Laure Calamy) ha un nuovo compagno e tutti hanno deciso di vendere la fattoria, cosa che la manda in crisi totale.

Potrebbe scivolare nell’isterismo a ogni passo ma nella sua altalena tra ieri e oggi, tra Louise e Louloute (ragazzina stupendamente malinconica) Hubert Viel sa muoversi con grazia, mettendo al centro il personaggio in modo delicato. La nostalgia di quei «pomeriggi di maggio» ha colori a volte pastello a volte cupi, indietro rimane lo sguardo della piccola, a quella adulta il regista affida invece il sottile impulso di liberarsene conservando solo le cose belle, le memorie che non fanno male, una carezza nel lettone, i sorrisi del mattino.

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