Nella sua lunga carriera di scrittrice, segnata da un continuo moto oscillatorio tra romanzo, narrativa per ragazzi, poesia, memoir e saggistica, Louise Erdrich si è progressivamente trasformata, da esponente di punta della letteratura native american, in una delle voci dominanti nel quadro della fiction americana contemporanea.

Il suo percorso di scrittrice è stato segnato a lungo dalla presenza di Faulkner, ben visibile tanto nell’invenzione di un luogo – una riserva indiana insieme reale e simbolica – in grado di farsi mondo e di accogliere dentro i propri confini un’infinita proliferazione di storie, quanto nelle scelte strutturali: dalla frammentazione della trama, del punto di vista e delle voci narranti al rifiuto di qualunque facile coerenza cronologica.

Nel contesto della narrativa contemporanea, spesso segnata dal ritorno a una trama di stampo più lineare, tutto ciò ha portato a considerare Erdrich una scrittrice «difficile», per pochi lettori. Il punto di svolta, premiato dal National Book Award, è stato la pubblicazione di La casa tonda: un romanzo nel quale, restando perfettamente all’interno dei temi a lei più cari, l’autrice ha rinunciato tanto alla frammentazione cronologica quanto alle continue variazioni del punto di vista, affidandosi per intero a un’unica voce narrante e ponendo al centro della trama un episodio da crime novel, arricchito però da una forte sensibilità sociale e declinato a tratti come un vero e proprio racconto di formazione.

Definire La casa tonda un giallo sarebbe fuorviante: fermarsi alla storia di uno stupro e delle indagini che seguono, o a un semplice romanzo di formazione con trama poliziesca, non renderebbe infatti giustizia all’opera totale che è, e soprattutto alla sua statura di «romanzo mondo», in linea con l’intera produzione di Erdrich, della quale rappresenta, a tutt’oggi, la sintesi più accessibile e appassionante.

Anche in forma corale
Intorno a quella trama gialla, ma spesso anche indipendentemente da essa, si affolla una straordinaria galleria di personaggi, tratteggiati con infallibile penetrazione psicologica, che sa toccare tutte le corde del sentire, dalla comicità più grossolana e sboccata alla tragedia; e attraverso quei personaggi, Erdrich mette in scena un mondo sospeso tra tradizione e modernità, tribalismo e cattolicesimo, spiritismo e materialismo.

La vocazione al «romanzo mondo», la creazione di una galleria di personaggi potenzialmente illimitata e di inesauribile ricchezza, l’abbondanza di registri narrativi, la capacità di attingere a uno specifico evento storico e di costruire a partire da esso un’architettura narrativa tanto complessa quanto leggibile sono i punti di forza anche dell’ultimo romanzo di Erdrich, Il guardiano notturno (traduzione scorrevole ed efficace di Andrea Buzzi, Feltrinelli, pp. 432, € 20,00), vincitore del Pulitzer nel 2021.

L’evento storico, come ci ricorda Erdrich nella breve prefazione al romanzo, risale al 1° agosto 1953, quando il Congresso degli Stati Uniti annunciò «una proposta di legge per abrogare i trattati bilaterali stipulati con le nazioni indiane d’America ‘finché crescerà l’erba e scorreranno i fiumi’. L’annuncio implicava l’estinzione ultima di tutte le tribù indiane e l’estinzione immediata di cinque tribù, compresa la tribù dei chippewa della Turtle Mountain».

Contro l’approvazione di questo progetto di legge si batté personalmente, in qualità di presidente tribale, il nonno di Erdrich, Patrick Gourneau: ed è alla sua battaglia, condotta con ogni mezzo, redigendo decine di lettere, coinvolgendo tutti i membri della comunità e partendo alla volta di Washington per far sentire le proprie ragioni, che l’autrice attinge facendone l’architrave attorno alla quale ruotano le storie individuali dei personaggi e lo scorrere del tempo e delle generazioni.

Patrick diviene, nella finzione narrativa, Thomas Wazhashk, guardiano notturno della fabbrica di rubini sintetici dove lavorano quasi tutte le donne della tribù, inclusa Patrice, detta Pixie; e sono le vicende alternate di Thomas – impegnato a combattere il progetto di legge ma anche a cercare di conoscere e capire le ragioni del suo principale promotore, Arthur Watkins, senatore dello Utah e fervente mormone – e di Pixie (che parte alla volta di Minneapolis in cerca della sorella Vera, scomparsa nelle viscere della città lasciandosi alle spalle il figlio neonato) a innervare tutta la prima parte del romanzo, almeno fino al ritorno a casa di Pixie, quando l’intera tribù si unisce nell’estremo tentativo di contrastare una legge concepita allo scopo di assimilare i nativi e farne altrettanti cittadini americani. Alla struttura per capitoli alternati ne subentra una profondamente corale, nella quale Erdrich dispiega a pieno la prodigiosa ricchezza di registri, la penetrazione psicologica, l’eleganza della lingua di cui consiste la sua piena maturità di scrittrice.

Si alternano così capitoli in soggettiva, che ci consentono di penetrare a fondo nella psiche dei personaggi maggiori – oltre a Thomas e Pixie, meritano una menzione quanto meno Wood Mountain, il giovane pugile dilettante innamorato di Pixie ma soprattutto del bambino di Vera; Lloyd Barnes, bianco, professore di matematica e allenatore di Wood Mountain, timido corteggiatore di Pixie e poi delle sue amiche Valentine e Doris; Zhaanat, madre di Pixie e depositaria del sapere e delle tradizioni native – e altri caratteri, spesso brevi e fulminanti, nei quali la voce narrante raggiunge una profondità insieme lirica e meditativa e riflette sull’impossibilità di un’assimilazione che non si trasformi istantaneamente in estinzione.

Un esempio, fra i tanti che si potrebbero trarre dalle pagine del romanzo, riguarda il passaggio in cui la delegazione Chippewa arriva a Washington, decisa a far sentire le proprie ragioni. A disorientarla – più ancora che gli edifici della grande città o la concentrazione di centinaia di persone in pochi isolati, sono i rumori: «A livello del suolo l’aria era silenziosa, ma lo spazio era racchiuso e circondato da un rombo così forte da sembrare un’unica presenza fisica, sebbene fosse composto da motori fermi o in movimento, clacson, campane, sirene, fischi, squilli, trilli, cigolio di freni, stridore di gomme, e al di sotto di quei suoni altri più tenui, lo scalpiccio dei passi, il fruscio delle carte, il brusio delle conversazioni, il tintinnio di cucchiai e forchette e di tazzine che venivano poggiate, i suoni di chi mangiava, lo stropiccio di cappotti indossati o tolti, il battere dei gong di latta, il ticchettio degli orologi e gemiti di movimento di soprascarpe di gomma o di piacere. Loro se ne stavano all’interno della propria quiete come in una tasca».

Tra allegria e dolore
«Loro» vivono nascosti e protetti in un mondo dove il tempo non è misurabile in secondi, minuti, ore, giorni, anni, ma è piuttosto una piega, una forma, una curva, una «sostanza insostanziale» con la quale «comprendiamo il nostro mondo»; un mondo che sembra non conoscere neppure il discrimine tra vivi e morti, tanto che a far parte della delegazione partita alla volta di Washington c’è anche un fantasma. I personaggi di Erdrich celebrano la propria storia, la propria immutabile visione del mondo, nel momento stesso in cui ne sentono la fine imminente: e lo fanno con quel misto di allegria e dolore, ottimismo e rimpianto, ingenuità e consapevolezza, che rende Il guardiano notturno un romanzo memorabile.