Lou Reed, l’anima di New York
Pagine/Una biografia con materiali anche tratti dagli archivi personali dell’artista Una vita furibonda, speciale, unica, mezzo secolo di carriera e un lascito culturale con pochi eguali
Pagine/Una biografia con materiali anche tratti dagli archivi personali dell’artista Una vita furibonda, speciale, unica, mezzo secolo di carriera e un lascito culturale con pochi eguali
«La mia settimana batte il vostro anno». L’autocitazione è un buon sunto della vita di Lou Reed, di cui pochi mesi fa ricorreva il decennale dalla scomparsa. Una vita furibonda, speciale, unica, mezzo secolo di carriera, un lascito culturale con pochi eguali, a cui ben si addice l’enfasi del titolo del libro a lui dedicato da William Hermes, Lou Reed. Il re di New York (pubblicato da poco da Minimum Fax). L’autore ha avuto accesso agli archivi dell’artista, estrapolandone mille dettagli, date, nomi, eventi, rendendo le ottocento pagine del libro un’enciclopedia più che esaustiva sulla vicenda umana e artistica del compositore statunitense. Un’opera completa, raccontata e scritta benissimo, pressoché insuperabile e definitiva in un’epoca in cui la bulimia editoriale ha ormai coperto lo scibile della musica contemporanea, riservando ai nomi più popolari e importanti un gran numero di pubblicazioni. Questa tipologia di libro chiude, virtuosamente, nella sua completezza, la possibilità di ogni ulteriore approfondimento. Lou Reed è stato un personaggio estremamente complesso, sfuggente, mai incasellabile in un profilo predefinito, sia artisticamente che umanamente.
SENZA PRECLUSIONI
Il libro non ci risparmia le vicende più oscure e oscene, pur evitando sensazionalismi pruriginosi e morbosi, con l’eccezione di un’insistenza evitabile e fastidiosa nel tentativo di definirne la sessualità, quando era ampiamente noto e palesato dallo stesso Lou quanto fosse aperta, senza preclusioni o problemi in tal senso. Lou Reed ci «svela» un aspetto mai o raramente considerato da pubblico e critica, peculiarità di molte star del pop rock di cui abbiamo spesso male interpretato il vero ruolo (vedi le presunte e spesso sbandierate iniezioni di eroina sul palco, in realtà mai avvenute ma solamente ostentata e plateale finzione teatrale): «Lou Reed è il mio personaggio. A volte è me per il venti per cento, altre per l’ottanta, ma mai al cento. È un mezzo per andare in posti in cui io non andrei o dire cose su cui non sono d’accordo». Il rapporto artista/personaggio/uomo (che fu anche prerogativa dell’amico David Bowie), quasi sempre, erroneamente, uniti nell’immaginario collettivo ma in realtà, altrettanto spesso, ben distinti. La rappresentazione sul palco non per forza coincide con quello che è la persona.
Il libro fa emergere anche i suoi tratti caratteriali antitetici: umanamente impossibile, scostante, sprezzante, protagonista di episodi censurabili nei confronti di giornalisti, fan, colleghi, collaboratori, con un contraltare di persona generosa, disponibile, amabile in altri contesti più intimi. Lou Reed ha lasciato il segno in ogni epoca che ha attraversato. Un segno forte, indelebile, violento. Nel periodo (seconda metà degli anni Sessanta) in cui la musica e la controcultura si spostavano verso istanze pacifiste, fughe dalla realtà attraverso l’assunzione di sostanze lisergiche, le sonorità si dilatavano e addolcivano, i Velvet Underground cantavano di eroina, sadismo, sessualità estrema, disagio e degrado. Le due menti della band, Lou Reed e John Cale, si fronteggiavano, all’ombra della visionaria gestione di Andy Warhol. I loro dischi erano urticanti, distorti, portavano all’estremo un’idea di avanguardia sperimentale. «Lou e io avevamo uno di quei rapporti in cui uno pensa che l’altro stia pensando la stessa cosa e invece non è vero. Non riusciva a capirmi e io non riuscivo a capire lui. Le uniche cose che avevamo in comune erano le droghe e l’ossessione per il rischio. Era la ragion d’essere dei Velvet Underground. L’intenzione era aggredire, di catturare su disco l’energia che sprigionavamo sul palco, di mantenere quel genere di animalità. La West Coast era troppo fiorita. Mi riferisco al flower power, ai figli dei fiori, li odiavamo, loro e le loro band. La loro opinione politica. E certamente odiavamo il loro modo di vestire» (John Cale). Ebbero scarso successo commerciale e un distratto sguardo da parte della critica. L’esordio soprattutto, del 1966, e a catena gli album successivi furono rivalutati nel tempo quando fu evidente l’influenza che ebbero sulla musica degli anni a venire. «Il primo album dei Velvet Underground vendette solo 10mila copie ma ognuno di coloro che lo comprò poi formò una band» (Brian Eno). «I Velvet Underground rappresentavano tutto ciò che i giovani amavano e gli adulti odiavano. La nostra musica era ad alto volume, non si capivano le parole, cantavamo di droga, sesso, violenza. Il Lou Reed dei Velvet Underground sarebbe stato anche il mio idolo da ragazzo» (Lou Reed).
SOLISTA
La band si scioglie lentamente, perdendo un componente dopo l’altro, tra litigi, odio reciproco, scontri verbali, rancori insanabili. Lou Reed riparte nel 1972 con una carriera solista dapprima incerta e poi baciata da un travolgente successo con Transformer dell’anno successivo, prodotto da Bowie e con brani destinati a diventare classici, come Walk on the Wild Side, Satellite of Love, Perfect Day. La discografia di Lou incomincia una fase altalenante con dapprima l’opera Berlin, poco compresa e avversata da critica e pubblico, il dignitoso Sally Can’t Dance, il live Rock’n’ roll Animal, diventato un classico del rock, per poi sferzare come una frustata chiunque si accostasse all’ascolto con Metal Machine Music del 1975, doppio album di rumore, feedback chitarristici, caos sonoro, cacofonia. Il disco venne ritirato tre settimane dopo la pubblicazione.
Gli anni Settanta e Ottanta di Lou Reed diventano un susseguirsi di alti e bassi discografici con capolavori come Street Hassle del 1978 e New York del 1989 ed episodi incerti e trascurabili. Anche a causa di una condizione fisica compromessa e una salute sempre in bilico. «Sul tavolino c’erano un flacone di compresse, un piatto rotondo d’argento con dodici siringhe ipodermiche usa e getta, disposte in modo ordinato lungo il bordo in una specie di compulsivo schema a raggiera da sballo di anfetamine e una fila di provette piene d’acqua con delle pilloline bianche che si scioglievano in bolle lattiginose» (1976).
Nel frattempo non mancano problemi con le case discografiche, debiti vari contratti a destra e a manca, concerti mal riusciti. Nel 1990 arriva un inaspettato ritorno alla collaborazione con John Cale nell’opera biografica dedicata al loro mentore Andy Warhol, scomparso tre anni prima. Songs for Drella composto in pochissimo tempo e registrato praticamente in diretta, è un piccolo gioiello di creatività, passione, dolore, poesia. Fu il preludio a una clamorosa reunion dei Velvet Underground nel 1993 che si concretizzò solo con una serie di date europee (che toccarono anche l’Italia e palesarono come l’intento non fosse prettamente artistico, considerando l’approccio molto accademico e poco partecipe della band, visibilmente divisa, perfino sul palco), piuttosto affollate. Purtroppo il sodalizio John Cale/Lou Reed si ruppe molto presto. Le previste nuove date americane furono annullate e i due non si parlarono più. La carriera di Lou prosegue di nuovo tra momenti di eccellenza e dischi poco ispirati. Si concede anche alla pubblicità, cedendo a suon di migliaia di dollari, i diritti di alcune sue canzoni per fare da colonna sonora a spot di vario tipo. Continua a muoversi nel mondo avanguardistico e chiude discograficamente con uno degli album più controversi della storia del rock, Lulu del 2011, in collaborazione con la metal band dei Metallica che divide fan e critici tra detrattori ed entusiasti. Lou Reed ci lascia il 13 ottobre 2013 per un tumore al fegato, per il quale aveva già subito un’operazione di trapianto e varie altre patologie connesse.
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