Lou Dematteis, la militanza di un fotoreporter
Intervista Alla lunga e straordinaria carriera del fotografo, dalle Americhe al Vietnam, la XX edizione della «Festa di Cinema del reale e dell’irreale» ha dedicato un focus con una mostra antologica dal titolo «Five From One. Cinque paesi, cinque storie»
Intervista Alla lunga e straordinaria carriera del fotografo, dalle Americhe al Vietnam, la XX edizione della «Festa di Cinema del reale e dell’irreale» ha dedicato un focus con una mostra antologica dal titolo «Five From One. Cinque paesi, cinque storie»
È attraverso l’immagine che il fotoreporter italoamericano Lou Dematteis ha cercato, nella sua quarantennale carriera, di far luce sulla storia di popolazioni soggiogate dalle potenze mondiali e dai loro interessi politici ed economici, come nel caso della guerra in Nicaragua, dove le sue fotografie del soldato americano Eugene Hasenfus, catturato durante il trasporto di armi ai Contras, furono uno degli elementi che fece luce sul traffico di armi degli Stati Uniti, il così detto «Irangate». Tra i suoi viaggi Dematteis ha esplorato le zone calde dell’America latina e il Vietnam che, dopo l’isolamento post bellico imposto dagli Stati Uniti, apre le sue frontiere a una nuova vita in bilico tra tradizioni millenarie e i nuovi miti dell’occidente.
A questa lunga e straordinaria carriera la XX edizione della «Festa di Cinema del reale e dell’irreale», ha dedicato un focus con una mostra antologica dal titolo «Five From One. Cinque paesi, cinque storie», a cura di Claudio Domini e Paolo Pisanelli con l’allestimento di Francesco Maggiore; e una rassegna cinematografica che comprende i documentari realizzati da Dematteis negli ultimi anni, come il poetico Keeper of the fire e il pluripremiato Crimebuster: A Son’s Search for His Father.
Nella sua lunga carriera ha deciso di affrontare di petto la politica americana, cercando di far emergere la verità attraverso le immagini, cosa l’ha spinta a diventare un fotoreporter?
Ho sempre cercato di capire quello che accadeva nel mio paese e intorno al mondo, soprattutto con il caso del Vietnam che ha segnato me e tutta la mia generazione, perché capimmo che il governo non diceva la verità e stava prendendo delle decisioni senza considerare l’impatto che queste avrebbero avuto sul resto del mondo e sulla mia generazione. Così a diciott’anni decisi di iscrivermi alla facoltà di Scienze Politiche e iniziai a fare quello che all’epoca veniva chiamato fotografo documentarista cioè scrivevo delle storie documentate con una serie di fotografie e le inviavo a delle riviste specializzate. Dopo otto anni decisi di dare una svolta alla mia carriera e iniziai a fare il fotoreporter, professione molto difficile da intraprendere e portare avanti ed è stato un momento particolare, fu un vero spartiacque per la mia vita soprattutto perché mi permetteva di avere un lavoro meglio retribuito.
Tra i suoi reportage più importanti c’è il caso del Nicaragua con la rivoluzione Sandinista e l’intervento dell’amministrazione Reagan che finanziò segretamente la controrivoluzione. Cosa l’ha spinta a raggiungere il Nicaragua?
La rivoluzione popolare guidata dal Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale che portò alla destituzione della famiglia Somoza, attuò un programma che ebbe un forte impatto sulla popolazione sia per le riforme istituzionali ed economiche sia a livello sociale nel campo dell’educazione e della sanità pubblica. Parallelamente in America venne eletto il presidente Ronald Reagan che decise di ribaltare la situazione in Nicaragua, considerata non ideale per gli interessi degli Stati Uniti. Per giustificare la sua avversità alla rivoluzione Sandinista l’amministrazione Reagan affermò che il nuovo governo in Nicaragua rappresentava una minaccia, ma per me era una menzogna; inoltre c’erano già dei miei amici che lavoravano lì e che stavano documentando la situazione sia in Nicaragua sia a San Salvador, dove si stava consumando una guerra civile. Così decisi di partire e appena arrivai a Managua, la capitale del Nicaragua, vidi la realtà in cui viveva la popolazione e capì che avevo davanti un paese estremamente povero dove praticamente non c’erano macchine, ma carretti che giravano per le strade. È stata un’immagine visiva forte che ribaltava la retorica di Reagan, ed è stato qui che ho capito che raccontare la verità doveva essere il mio obiettivo.
Questo obiettivo, raccontare la verità, l’ha portata successivamente in Ecuador per il caso delle compagnie petrolifere Texaco e Chevron Corporation.
Quella dell’Ecuador è una storia legata all’inquinamento e a un fatto di giustizia sociale. Ho lasciato il Nicaragua nel 1990 e nel 1993 ho deciso di andare in Ecuador, dove non si sapeva ancora molto su quello che stava accadendo con la compagnia petrolifera Texaco. Arrivai lì con un gruppo di investigatori e mi resi conto che la situazione era drammatica, i livelli di sfruttamento e di scavi nella giungla erano molto profondi. Un giorno incontrai un medico che mi presentò una serie di persone che avevano difficoltà a respirare, avevano problemi legati alla pelle e questi furono i casi che precedettero un un’esplosione di cancro in tutta l’area, una sorta di epidemia tumorale. Quando nel 2003 scoppiò il caso legale contro la compagnia Chevron Corporation che in quegli anni aveva acquisito la Texaco, tornai in Ecuador e l’esplosione dei casi tumorali che mi aveva predetto il medico dieci anni prima si è effettivamente verificata e oltre a questi casi di cancro ci sono stati dei problemi con le nascite perché le persone bevevano acqua contaminata e le donne iniziarono a partorire feti deformi. Dopo il 2003 ho continuato a documentare e raccontare la storia di queste persone con l’intento di far pagare questa compagnia petrolifera per ciò che è successo. Mi sono recato anche in alcune zone dell’Amazzonia che non sono state toccate dallo sfruttamento intensivo per incontrare e documentare le persone che vivono in questo lato della foresta.
Negli ultimi anni si è dedicato anche al film documentario, come è arrivato a decidere di avvicinarsi al cinema?
Nei primi anni del 2000 la tecnologia per poter girare un film era estremamente economica e molte persone hanno iniziato a fare i propri film. Un mio amico è venuto a chiedermi di fare un lavoro insieme ed era un periodo in cui cercavo degli stimoli per sperimentare cose nuove; così ho incominciato a vedere come funzionava questo mestiere utilizzando il digitale. Parallelamente un’associazione che organizzava una mostra su mio padre, il Procuratore distrettuale e giudice Louis B. Dematteis, mi aveva chiesto delle sue fotografie e gli proposi di girare un piccolo documentario sulla sua storia che poi fu proiettato durante la mostra. Qualche tempo dopo una stazione televisiva della Contea di San Mateo in California mi chiese di presentare un documentario più lungo dal titolo Crimebuster: A Son’s Search for His Father; accettai con entusiasmo perché per me era un modo di riscoprire le mie radici italiane e soprattutto riprendere un dialogo con mio padre interrotto molti anni fa quando mi opposi espressamente alla guerra del Vietnam. Mio padre fu una un pilastro della comunità italoamericana, non solo per il ruolo di Procuratore, ma soprattutto perché grazie alla sua leadership contribuì al cambiamento del panorama sociale e politico in California in un momento in cui il superamento degli stereotipi etnici metteva alla prova le famiglie immigrate.
Da questa esperienza mi sono trovato molto bene con il produttore Dante Betteo e insieme abbiamo deciso di girare un film di finzione di genere noir – entrambi abbiamo questa passione – The other barrio basato sul racconto del mio amico e poeta Alejandro Murguia.
Con Alejandro Murguia, ha realizzato da poco anche lo splendido «Keeper of the fire», film che affronta i problemi dei quartieri americani come la rapida gentrificazione di San Fransisco. È straordinario come siete riusciti a unire la forma del documentario alla poesia.
Il lavoro che ho fatto insieme ad Alejandro sul territorio e sul quartiere è molto importante e questo è un esempio di come gli artisti possono influenzare, avere un impatto sulla vita di un quartiere e sul suo sviluppo. Nel particolare caso di Mission, il quartiere su cui lavoriamo, l’ampia comunità di artisti ha assunto la responsabilità di individuare quali sono i problemi e gli obiettivi del quartiere, ma anche di dare speranza alla gente di poter cambiare la situazione. Quello che con Alejandro abbiamo cercato di fare in un certo senso e anche di tracciare un percorso e accompagnare la popolazione nella lotta per il diritto alla casa e difendere la propria cultura abitativa nel quartiere. È in questo senso che vedo il mio impegno come artista all’interno del quartiere.
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