Trent’anni sono una bella fetta di tempo. Si fa in tempo a cambiare vita, partner, abitudini. Provatevi però a trovare un gruppo che ha l’unico punto di tenuta, inscalfibile, in un camioncino-palco Fiat 615 del 1956, e che i trent’anni citati li ha trascorsi nel più parossistico, vorticoso, imprevedibile cavalcare eventi tra la gente inventati per germinazione spontanea e tradotti in realtà a fronte della apparente impossibilità di realizzarli. Ottimismo della volontà, ottimismo della (s)ragione, elogio della follia creativa, musicale, letteraria, storica, esistenziale, forse. Stiamo parlando dei Têtes de Bois, e se uno sceglie di chiamarsi in quel modo, capocce di legno, vuol dire che il materiale è resistente davvero, e, in pendant, altamente lavorabile con artigianato fine. In trent’anni, con la loro musica avvolgente e direttahanno incrociato le piste con decine di artisti, hanno dovuto salutare amici testoni sorridenti come loro, come Margherita Hack e Francesco Di Giacomo. Altrettanti, statene certi, si preparano a incontrarli nei prossimi trent’anni. Ricostruire l’anarchica disseminazione di musica, libertà, coraggio, temerarietà delle «Teste» nell’inventarsi concerti tra gallerie e ferrovie abbandonate, case occupate, svincoli autostradali, miniere, teatri off, Premi Tenco e festival, Retromarce su Roma e via dicendo, non è un percorso a ostacoli, per chi tenta di riprendere le fila del discorso: è un percorso in un labirinto dove le uscite le inventate voi, e pure le entrate. Qualcuno c’è riuscito a domarlo quel labirinto, Massimo Pasquini, che in La strada, il palco e i pedali/30 anni di storie dei Têtes de Bois (Squilibri) riesce a riprendere e rilanciare non un filo del discorso, ma un mazzo intero di fili: pendant in parole perfetto e avvincente per chi segue le avventure di tutta la squadra del camioncino e del capitano senza gradi Andrea Satta. Un altro azzardo tentato, voluto fortissimamente, riuscito sul filo di una scrittura tesa, precisa come un bisturi, ma all’occorrenza avvolgente come un vento di scirocco che invece di rinfrescare fa percepire ancora di più il calore è quello realizzato dalla scrittrice Stefania Aphel Barzini. La mia Casa è un’isola/La vita e la musica di Rosa Balistreri (Giunti) è un’ode fiera e feroce al coraggio di una donna di Licata mille volte umiliata e offesa, e mille volte risorta col coraggio di una voce di terra bruciante che cantava di passione e di riscatto e, che, oggi, è un termine di paragone: ineludibile.