Lavoro

Lotta in Val di Susa: ma stavolta tocca alle operaie della Savio

Lotta in Val di Susa: ma stavolta tocca alle operaie della Savio

Nella terra dei No Tav Sono 82 le famiglie coinvolte, possibile via d’uscita la solidarietà. Poche ore per decidere

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 5 luglio 2017

Ottantadue famiglie della Val Susa sono appese a un filo. Se reggerà verrà loro riconosciuto un contratto di solidarietà per dieci mesi, in caso contrario scatteranno i licenziamenti. Storia di ferro, centenaria, che si trasforma da minerale in prodotto finito. Storia di un pezzo importante dell’industria torinese che rischia di scomparire. La Savio di Chiusa San Michele è una fabbrica che occupa circa 300 dipendenti: da tre mesi lo slargo che dà sulla statale che percorre la valle è punteggiato di bandiere rosse della Fiom: il sintomo classico della crisi e dei licenziamenti. Da almeno otto anni la provincia di Torino è ammorbata da una peste dalle caratteristiche costanti: una fabbrica, una statale, molte bandiere rosse e qualche tenda dove i lavoratori fanno le assemblee.

Alla Savio di Chiusa San Michele, posta a trecento metri dove nel 2011 chiuse la Cabind, una fabbrica attiva nella produzione di circuiti elettrici, le bandiere rosse sono spuntate a marzo, quando come un fulmine a ciel sereno è piombato il piano di riduzione del personale.

Meno ottantadue posti di lavoro, quasi tutti tra le operaie impegnate nella produzione di componenti per serramenti in alluminio. Così è iniziata una trattativa, che ha visto coinvolta la Fiom, la viceministra Teresa Bellanova, e l’assessora regionale al lavoro Gianna Pentenero.

Da due giorni la produzione è bloccata e in fabbrica non entra più nessuno: un picchetto posizionato all’ingresso dissuade chi vorrebbe lavorare durante le ore cruciali della trattativa. Che verte su un unico punto: concedere ai lavoratori dieci mesi di contratto di solidarietà, durante i quali cercare soluzioni alternative e ricollocamenti. All’inizio del braccio di ferro la richiesta era pari a ventiquattro mensilità, poi si è scesi a sedici e infine dieci: su suggerimento del ministero. Ma la proprietà pare irremovibile: «Non ci sono spazi per continuare, gli esuberi servono per rilanciare la produzione».

Data la gravità della situazione a fine maggio arriva anche il segretario della Fiom, Maurizio Landini. Anche lui individua nei contratti di solidarietà lo strumento più consono per uscire dalla palude.

Fuori dal capannone, sotto il cocente sole di luglio, un gruppo di operaie aspetta novità in arrivo da Roma dove al tavolo del ministero la proprietà dell’azienda dovrà fronteggiare un fronte compatto, istituzionale sindacale. Tra loro la giovane delegata sindacale, Fiom, Rosalba Giaccone fa il punto della situazione: «Da parte nostra c’è stata estrema volontà di confronto e mediazione. Non è semplice passare da due anni di contratti di solidarietà a dieci mesi. Ma è come se ci trovassimo di fronte a un muro, che non vuole sentire ragioni. Molti di noi non sono disposti ad accettare una buona uscita senza sapere quale futuro lavorativo ci attende».

I soldi che l’azienda offre come «buona uscita» sono diciottomila e ventiduemila euro, dilazionabili su più mesi. A questi, ovviamente, si sommerebbe la Naspi, il sussidio di disoccupazione. Ma ciò che preoccupa i lavoratori, la stragrande maggioranza operaie, è il deserto industriale che avanza non solo in Val Susa, ma in tutta la provincia di Torino.

«Uscite di qua dove possiamo andare – riprende Rosalba Giaccone – a domandare un lavoro? Alcune hanno un’età in cui è difficile riciclarsi, a maggior ragione in periodo di profonda crisi come questo. Vogliamo un accordo che permetta a tutti di avere il tempo necessario per ricollocarsi».

La speranza è che la pressione congiunta possa dare frutti.

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