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Lotta di classe in Brasile

Lotta di classe in BrasileRegina Casè, sotto la regista Anna Mulayert

Intervista Complicazioni nella vita di una tata in «È arrivata mia figlia», da oggi nelle sale, il film d'esordio della regista televisiva Anna Mulayert. «Curare i figli da noi è considerata una cosa noiosa, un lavoro inferiore e non elegante da delegare ad altri»

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 4 giugno 2015

Ci sono voluti molti anni per scrivere la storia di È arrivata mia figlia, primo lungometraggio della regista e sceneggiatrice televisiva brasiliana Anna Mulayert da oggi nelle sale italiane. Ma non perché si tratti di una vicenda complessa e cervellotica: al contrario, è la semplice storia della tata e collaboratrice domestica di una ricca famiglia di San Paolo, Val, ispirata alla governante che accudiva la stessa regista da piccola. La protagonista ha dovuto lasciare che un’altra donna si prendesse cura della figlia, Jessica, per poter lavorare a casa dei suoi «padroni» e crescere il loro figlio Fabinho, di cui è a tutti gli effetti la seconda madre evocata dal titolo internazionale, con cui il film ha vinto il premio del pubblico nella sezione Panorama dell’ultimo Festival di Berlino.

Abituata ad una rigorosa separazione sociale tra ricchi e poveri, servi e padroni, Val è il volto rassegnato del Brasile di ieri, le cui fondamenta cominciano a tremare con l’avvento di una nuova generazione – quella di Jessica – che reclama caparbiamente il proprio posto nel mondo. Ed infatti l’arrivo della figlia a San Paolo e nella casa dei suoi datori di lavoro per poter sostenere l’esame di ingresso alla facoltà di architettura sarà il meccanismo che incrina il rapporto di Val con la famiglia che l’ha ospitata sotto il suo tetto per oltre dieci anni. Jessica sfida quasi inconsapevolmente l’ordine stabilito con dei gesti all’apparenza innocui: reclamare la stanza degli ospiti, mangiare il gelato di Fabinho, accettare un invito a pranzo del padre del ragazzo. La tensione di Val è rispecchiata dal disagio di donna Barbara, la padrona di casa, la cui condiscendenza nei confronti dell’ospite si muta presto in malcelata insofferenza. È arrivata mia figlia esplora quindi – con uno stile asciutto e uno sguardo che si aggira quasi solo tra i confini domestici della villa – il fenomeno delle tate che crescono i figli delle famiglie ricche, assai diffuso non solo in Brasile.

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E lo fa esponendo il conflitto generazionale di un mondo che cambia, in cui il diritto di nascita si avvia, auspicabilmente, al tramonto. Ma, come racconta la stessa Mulayert, era il personaggio di Jessica – «che fino a non molto tempo fa non sarebbe potuto esistere» – che stentava a prendere forma. «Nella prima stesura andava a San Paolo per trovare lavoro come manicure, e la vicenda finiva in modo classico: la figlia di Val andava a letto con il padrone e si rovinava la vita. Ma io volevo assolutamente uscire da questo cliché, e non volevo neanche un happy end da soap opera; dovevo trovare un finale che spezzasse questi schemi. Poi mi è venuta l’idea che Jessica venisse a San Paolo per l’esame di architettura. Quando ho avuto questa intuizione ho capito che avrebbe rivoluzionato la drammaturgia del film, ma anche che rifletteva un cambiamento sociale epocale».

È arrivata mia figlia ha come punto di partenza il tema delle mamme «surrogate».

Ma soprattutto quello dell’educazione, anche affettiva. In Brasile fin dai tempi della schiavitù sono state le tate/schiave a curare l’educazione affettiva dei figli dei padroni. E poi c’è il problema dell’educazione materna, che la madre dà ai figli, che nel mio paese ed in generale nell’America Latina viene sottovalutata. Curare i figli è considerata una cosa noiosa, un lavoro inferiore e non elegante, da delegare ad un’altra persona pure se la madre non lavora, che è anche la base del maschilismo. Mia madre ad esempio non lavorava ma noi figli venivamo affidati ugualmente alle tate. Poi, con il personaggio di Jessica, subentra anche il tema dell’educazione scolastica. Senza dimenticare l’aspetto sociale, per cui molte tate lasciano i figli per andare a lavorare per quelli degli altri.
Il senso di inferiorità viene introiettato da Val. Nel Brasile di oggi in che direzione sta andando la differenza tra ricchi e poveri? 

Negli ultimi 500 anni il Brasile è sempre stato governato dai ricchi, da un’elite, fino a Fernando Henrique Cardoso. Poi è arrivato Lula, il primo presidente che veniva dal popolo, e Dilma Rousseff ha continuato il suo lavoro. Solo negli ultimi 15 anni qualcuno al governo ha dato al popolo la priorità, e ha cercato di diminuire il gap sociale. Lula ha voluto programmi come Fame Zero, o il sussidio alle famiglie per l’educazione dei figli: tutto questo ha inciso sull’autostima dei brasiliani.

Quindi le ragazze dell’età di Jessica in questo momento sono più consapevoli del fatto che gli schemi sociali possono essere sfidati? 

Ancora molto poco. A Berlino, quando ho presentato il film, ho conosciuto delle donne brasiliane nere che dicevano che in Europa è più facile farcela rispetto al Brasile. All’inizio il personaggio di Jessica doveva essere nero, ma poi non ho voluto di incorrere nelle implicazioni del razzismo per concentrarmi sul separatismo sociale. Dilma ha introdotto le quote per l’ingresso all’Università dei brasiliani africani, che sicuramente porterà ad un risultato positivo, anche se ha scatenato molte polemiche. Infatti in Brasile si dice che non c’è razzismo perché «i negri sanno qual è il loro posto». Al contrario degli Usa, dove c’è più consapevolezza, i brasiliani si oppongono di meno alle ingiustizie. Anziché giungere ad una presa di coscienza sociale che porti ad una lotta di classe, chi si ribella spesso finisce in una vita criminale.

Come ha scelto Regina Casé per il ruolo di Val? 

È un’attrice molto famosa in Brasile, l’ho conosciuta 30 anni fa in occasione del suo primo spettacolo teatrale. Poi ha fatto molti film e telenovelas, ma da tempo ha smesso di fare l’attrice e conduce un tv show in cui ospita spesso persone del popolo, delle favelas. Non ho scritto il personaggio pensando a Regina, ma ho sempre voluto che fosse lei ad interpretarlo perché racchiude in sé l’essere bianca, nera e indios, e come me ha molto rispetto del personaggio della domestica che invece nei film brasiliani viene ridicolizzato frequentemente.

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