Internazionale

L’ossessione italiana per l’uomo che era negli anni 70

La storia Il processo sommario. E ora Renzi cercherà "il successo" che Berlusconi non ottenne

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 4 marzo 2015

Dopo quattro anni si riapre, come in un gioco dell’oca in cui si torna sempre al punto di partenza, il caso Cesare Battisti. Era l’8 giugno 2011 quando la Corte costituzionale brasiliana negò l’estradizione nei confronti dell’ex militante dei Proletari armati per il comunismo, detenuto in Brasile dal 2007, dopo aver dovuto abbandonare la Francia dove viveva dal 1981.

Quando la Corte emise il suo verdetto, Battisti aveva già ottenuto da oltre due anni lo status di rifugiato politico concessogli dall’allora ministro della Giustizia Tarso Genro. Le pressioni italiane, dopo quella decisione, erano state senza precedenti, tali da richiamare addirittura l’ambasciatore italiano in segno di protesta. L’obiettivo era stato centrato. In novembre il Tribunale supremo federale si era espresso contro la concessione dello status di rifugiato, rimettendo però la decisione finale nelle mani del presidente. Nell’ultimo giorno del suo mandato, il 31 dicembre 2010, Lula si era espresso contro l’estradizione, anche sulla base delle regole brasiliane che la vietano in paesi nei quali vige l’ergastolo, che in Brasile non esiste. Sembrava finita. Non lo era. Per il governo Berlusconi ottenere lo scalpo di Battisti era diventata una questione d’onore, un risultato politico senza alcuna misura con la portata reale della vicenda. Il governo di Roma aveva dunque insistito, esercitato pressioni di ogni sorta, martellato il Brasile, presentato due ricorsi presso l’Alta corte brasiliana contro la negazione dell’estradizione. Entrambi respinti. Una storia che aveva coinvolto le relazioni diplomatiche prima con la Francia, che aveva concesso l’estradizione nel 2004, dopo anni di insistenze italiane, poi con il Brasile, sembrava dunque essersi chiusa il 22 giugno 2011, quando la Corte aveva concesso a Battisti il permesso di soggiorno in Brasile.

Ieri la giostra ha ripreso a girare. Gli esponenti della destra hanno mitragliato di dichiarazioni feroci le agenzie. Il centrosinistra, con qualche eccezione, è stato più cauto. Ancora non è chiaro se Battisti potrà scegliere in quale Paese essere spedito o se dovrà andare in Messico o in Francia, le nazioni da cui aveva raggiunto il Brasile. Facile prevedere che Roma farà di tutto perché lo scrittore venga inviato in uno dei Paesi che si affretterebbero a rimandarlo in Italia, dove lo attende la condanna all’ergastolo.

Quattro omicidi. Due compiuti direttamente, uno progettato, in un altro presente nel commando ma in funzioni di supporto. Queste le motivazioni della condanna, esito di uno di quei processi sommari che erano allora la norma. Un teste d’accusa principale, su cui si basa l’intera architettura della sentenza: il pentito Pietro Mutti, fondatore dei Pac dei quali Battisti è da sempre indicato, a torto, come uno dei capi, mentre era un semplice militante. Testimonianza discutibile, quella di Mutti: accusò Battisti di aver ucciso un agente di custodia, Antonio Santoro, poi fu costretto ad ammettere di aver sparato lui. Lo indicò come esecutore di un altro omicidio, che Mutti conosceva solo de relato, quello dell’agente della Digos Andrea Campagna, ucciso quando i Pac si erano già sciolti. In realtà a sparare era stato un altro militante, Giuseppe Memeo, reo confesso, e l’identikit dell’uomo che era con lui è opposto a quello di Battisti.

Ma in fondo non è questo ciò che importa. Quel che rende assurda l’ossessione italiana per l’ex detenuto comune politicizzatosi in carcere e poi diventato, dopo l’arresto nel ’79 e la fuga dal carcere nell’81, scrittore di successo è l’assenza di qualsiasi pericolosità sociale. Battisti ha cambiato vita da ormai 35 anni, con il militante armato degli anni 70 non ha più nulla a che spartire, ha pagato i suoi crimini con anni di galera e con una vita spesa a fuggire da un paese all’altro. Potrebbe bastare. Dovrebbe bastare.

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