La malinconia come sentimento, come aspirazione, come dimensione più prossima alla gioia, alla felicità che alla nostalgia o, addirittura, alla tristezza. La malinconia come strumento per osservare la vita, le sue origini, le strade da percorrere, come misuratore del tempo a venire. La malinconia oggetto di studio e di fede, orizzonte e memoria. Jacov – il protagonista del romanzo di Mark Haber, Il giardino di Reinhardt (Keller, traduzione di Gabriella Tonoli, pp. 224, euro 16) – è ossessionato dalla malinconia, la ritiene il senso del tutto, e ne fa oggetto di una ricerca spasmodica che lo porterà dal cuore dell’Europa al Sudamerica, dalla Croazia all’Ungheria, dal suo castello in Germania al Rio de la Plata, dal ragionamento più complesso al cuore di ogni essere umano, perché alla malinconia apparteniamo e solo essa davvero ci riguarda, ci racconta.

È IL 1907 quando Jacov decide di partire dalla Dalmazia e andare tra Uruguay e Argentina, là dove dovrebbe trovarsi Emiliano Gomez Carrasquilla, il filosofo della malinconia, il punto d’unione tra il desiderio e il suo realizzarsi, un uomo che scriveva e che poi ha smesso, ed è sparito.
Questi elementi fondativi del romanzo, già di per sé molto interessanti, diventano di rara bellezza perché fissati da un linguaggio, una sintassi e un ritmo che ha pochi eguali. Haber è al suo esordio ma ha trovato un passo che mette il lettore in uno stato di felice ipnosi. Leggiamo un solo lungo capitolo, intitolato semplicemente 1907, per le duecento e passa pagine non esiste la separazione tra un paragrafo e l’altro, i punti sono pochissimi, numerose invece sono le virgole che scandiscono le pause e il ritmo, le molteplici aperture di ogni discorso e le accelerazioni fulminanti. Le virgole che tengono insieme momenti del passato a quelli del presente, le virgole che nella scrittura di Haber valgono quanto una parola, una frase riuscita, un verbo coniugato bene.

«Malgrado la geografia, nella teoria, abbia poco a che fare con la malinconia, nella pratica la geografia ha tutto a che fare con la malinconia»; la costruzione dei periodi fa pensare a Thomas Bernhard (specie per Il soccombente e Camminare) o a Roberto Bolaño (se guardiamo a L’amuleto e Notturno cileno), rimandi ingombranti ma che hanno senso, viene da pensare che di Haber sentiremo parlare a lungo. Il narratore della storia è il segretario, protetto, studente fidato di Jacov che narra le vicende dal proprio punto di vista, facendo sapientemente avanti e indietro tra la foresta uruguaiana (ma forse argentina, fors’anche brasiliana) e Stoccarda, e la Dalmazia, e le vicende che lo legano a Jacov, a Sonja – amata e tormentata -, a Urlich, fino alla Russia di Tolstoj, alla sua casa, al tentativo di avvicinarlo, alla fuga dalla casa stessa.

UNO DEI SEGRETI di questo romanzo è la capacità di far sorridere e pensare contemporaneamente, di affezionarsi alla follia di un uomo e alla sua ricerca senza senso apparente. Perché accade? Perché siamo dei malinconici? Può darsi, ma soprattutto accade perché la scrittura bella ci porta in posti nuovi dove stare, in cui scoprire qualcosa a cui non avevamo pensato, a cui non avremmo creduto cinque minuti prima e a cui adesso crediamo. Una storia che s’affaccia sulle nostre inquietudini e ci spinge a viaggiare, fosse pure soltanto intorno alla nostra scrivania, come in quelle foto di Ghirri – meravigliose – in cui il mappamondo era già il mondo.