L’ossessione della celebrità
Al cinema In Bling Ring, Sofia Coppola racconta il sogno di una baby gang nelle ville dei divi trash di Hollywood
Al cinema In Bling Ring, Sofia Coppola racconta il sogno di una baby gang nelle ville dei divi trash di Hollywood
Una gang di bad girls che impazza tra le colline di Hollywood. Sarebbe piaciuto anche a Roger Corman il plot del nuovo film di Sofia Coppola Bling Ring (bling sono i gioielloni patacca, ring è gergo per banda), tratto da un articolo di Vanity Fair di Nancy Joe Sales, The Suspects Wore Louboutins.
Immerso, anche quando è buio, nella luce polverosa, vagamente color cipria, cara a Harris Savides (il direttore della fotografia scomparso, cui è dedicato il film, si è ammalato durante le riprese ed è stato sostituito da Christopher Blauvelt), e girato da Coppola con macchina più nervosa e narrazione meno ellittica del solito, The Bling Ring si vive un po’ come un sogno.…
Del sogno ha qualcosa anche l’avventura del gruppo di teen ager protagonisti (Emma Watson, elettrica, e gli sconosciuti Taissa Farmiga, Israel Broussard, Claire Julien e Katie Chang), ragazzini «difficili» della San Fernando Valley, ignorati da genitori distratti (Leslie Mann è una mamma religioso/New Age), il cui passatempo ideale è introdursi nelle ville hollywoodiane delle loro trash celebrities preferite –Paris Hilton, Lindsay Lohan, la reality star Rachel Bilson..) e svaligiarle. Non per arricchirsi quanto, piuttosto, per avvolgersi nei loro costosissimi accessori (scarpe, goielli, profumi, biancheria…), di cui recitano i nomi come un mantra (Prada, Miu Miu, Balmain, Chanel, «Loubby» e «la Birkin» bianca di Lindsay), strusciarsi contro l’inconsistenza luccicante della loro fama, barcollare in cima ai loro tacchi (anche se le scarpe sono di misura sbagliata: sembra che Paris abbia dei piedi enormi), condividerne «l’aura».
Non importa se significa farsi arrestare e condannare a quattro anni di prigione. Che oggi poi è il primo passo verso un’aura propria, non a caso l’intera famiglia di una delle ragazze della storia, Nicki Neiers, è stata cooptata per il reality Pretty Wild.
Folletti incappucciati nella notte deserta, i ragazzi (Nicki, Sam, Chloe, Rebecca e Mark) entrano ed escono dalle case come per magia (gli indirizzi delle star li trovi online, i tabloid ti dicono quando sono fuori città e -rivelazione magnificamente simbolica- i ricchi lasciano regolarmente finestre aperte e chiavi sotto lo stuoino).
Ogni visita è un rituale diverso, anche filmicamente. Spesso i ragazzi tornano più volte nello stesso posto, come da Paris Hilton che, in vero spirito The Bling Ring (sempre in gioco tra reality e realtà), tra l’altro ha offerto la sua casa per le riprese del film. Avventura di materialismo sfrenato eppure, a suo modo, altrettanto immaterico (catturare quella contraddizione è il bello del film di Coppola, che si snoda come un documentario sulle superfici), Bling Ring non è un romanzo di perdizione alla Bret Easton Ellis o uno di formazione come lo avrebbe fatto Harmony Korine. Coppola (che in pochi stacchi di Somewhere aveva saputo immortalare per sempre un paese risucchiato dalla tv) sospende il giudizio sulle sue eroine e il loro mondo a misura di Twitter, Facebook e TMZ. Come sempre il suo è un cinema di osservazione, di comportamenti – con una sensibilità precisa nei confronti di un universo adolescenziale che ricorda certe sintonie di Gus Van Sant (non a caso un altro collaboratore abituale di Savides).
Mancano il sesso e la violenza che ci avrebbe sicuramente messo Corman. Ma la vocazione per la trasgressione è la stessa.[do action=”citazione”]Capace di penetrare quel mondo, di calarsi in quello sguardo, con la stessa naturalezza con cui aveva esplorato l’universo segreto e innocente delle vergini suicide di Eugenides, colto il paradosso di Maria Antonietta, la solitudine di Charlotte (Lost in Translation) e la trascendentale precisione di Cleo (Somewhere), Coppola filma le imprese della «bling ring» come se fossero delle performance.[/do]
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