Sono originario di Vas e a luglio compio 75 anni. Ne avevo 24 quando iniziai a lavorare nel manicomio di Feltre. Era il giugno del 1971. Mi ero diplomato all’alberghiero. Durante i 15 mesi di militare avevo prestato servizio alla mensa di un albergo per ufficiali e famiglie a Tarvisio, vi alloggiavano un centinaio di persone. Per strada c’erano le bancarelle, a comprare i jeans erano le ragazze jugoslave perché al tempo di Tito da loro erano considerati occidentali e non erano in vendita. Dopo la naja andai a lavorare al ristorante Enrico VIII, vicino a Vicenza, frequentato da Carla Fracci e dall’allora Presidente del Consiglio Mariano Rumor. Presentai domanda di lavoro all’ospedale e il presidente Leandro Fusaro mi suggerì di partecipare al concorso per la cucina dello psichiatrico di Feltre. Feci domanda, anche perché abitavo a due minuti di bicicletta.

Fui assunto come responsabile della cucina e lì lavorai vent’anni. Il menu non era fisso ma le polpette c’erano tutti i giorni. Fin dai primi giorni mi resi conto che erano dure e allora ripresi la ricetta di mia madre e nell’impasto misi le patate per renderle soffici e andare incontro alle necessità di coloro che avevano problemi di masticazione. C’erano tanti anziani ricoverati. Preparai il baccalà alla vicentina e le omelette, piatti che non avevano mai assaggiato. Coordinavo il personale della cucina, siamo stati più o meno tutti assunti nello stesso periodo e abbiamo collaborato per rinnovare le apparecchiature, velocizzare le operazioni e ottenere alimenti più sani. Avevo a disposizione dei degenti che già lavoravano in cucina. C’era chi preparava le verdure e chi le minestre. Erano autonomi e affidabili, usavano coltelli e liquidi bollenti, pericolosi per sé e per gli altri.

Ci svegliavamo alle 6 del mattino, ci fermavamo all’una e riprendevamo alle 4 fino a dopo cena. C’era poco tempo per i nostri problemi personali. Quando facevamo la pausa, potevamo usare il bar interno oppure uscire. Ma non avevamo molto tempo per la pausa, cercavamo di tornare a casa. Quando staccavo, a seguirli era un infermiere. I degenti non erano costretti a lavorare, ma la loro famiglia eravamo noi ed erano contenti così. Mia suocera aveva poca terra ma bisognava lavorarla, seminare patate e fagioli. Non avevo tempo di aiutarla e allora chiesi al capo infermieri e lui mi diede un collaboratore: «Te lo porti a casa, e gli fai fare quello che ti serve», disse. Mio suocero non c’era più, quel signore di sessant’anni passava la giornata con mia suocera, raccoglieva fieno e tagliava erba. L’unico problema era che gli piaceva bere: ogni tanto scappava dai vicini a chiedere un bicchiere di vino. Faceva pranzo con mia suocera, la sera andavo a prenderlo e lo riportavo in manicomio. Se fosse successo oggi, mi avrebbero accusato di sfruttamento.

L’ospedale psichiatrico aveva un’azienda agricola con un suo direttore. C’erano mucche e maiali, ma non galline. Avevamo salsicce, cotechini, braciole, verdure di stagione. Nel forno cuocevamo il pane. C’erano il macellaio, gli addetti alle carni, ai primi piatti, alle verdure. E poi c’era la suora. Tutto l’ospedale era gestito dalla madre superiore e dalle suore. La nostra suora si occupava della dispensa, la mattina preparava il pane, il vino, distribuiva sigarette ai malati. Era una città nella città. C’erano il materassaio, due barbieri, un parrucchiere, la lavanderia, il calzolaio, il bar interno. Il personale c’era. Fin troppo.

La gente veniva internata per futili motivi, era così. Quando entravi, ti davano psicofarmaci e non eri più in grado di reagire. La pazzia è contagiosa. Il mondo qui dentro era diverso. Ogni malato aveva le sue particolarità. Italo, per esempio, aveva la mamma che veniva a trovarlo con i panetti di burro e mi chiedeva di fargli da mangiare a parte, aveva l’impressione che fosse malnutrito. Lui aveva una forza che non era in grado di dosare. Quando venne il vescovo, gli andò incontro e gli diede una pacca sulla schiena: il prelato si piegò a metà. Era un bestione. Ho passato vent’anni che non dimentico, belli anche se con qualche screzio che non fa testo. L’atmosfera era cordiale. Si rideva, si scherzava. Un’armonia perfetta con i degenti, li consideravamo alla pari. Facevano il lavoro che facevo anch’io.

Conoscevo quasi tutti i pazienti, tranne quelli che erano costretti a letto nei reparti, nei reparti non sono mai entrato. Conoscevo anche le suore, gli infermieri. Erano tutti più grandi di me. Immagino non ci siano più. Quando entro qui mi viene il magone. Con la legge Basaglia i degenti furono man mano spostati nelle RSA e in altre strutture. Poco per volta l’ospedale psichiatrico fu dismesso. Degli oltre mille malati ne rimasero meno di cento. Divenne controproducente tenere qui una cucina per poche persone e, siccome l’ospedale psichiatrico e civile erano tutt’uno, cottura e distribuzione del vitto furono convogliate al civile e da lì i piatti vennero consegnati allo psichiatrico.

L’ospedale era la prima industria di Feltre, tra civile e psichiatrico i dipendenti erano un migliaio. Al secondo posto c’era il metallurgico, che ne aveva trecento. Lavorare in ospedale era un privilegio, un impiego sicuro e dignitoso, ricercato. Chi lo prendeva, se lo teneva. Mia moglie era infermiera in sanatorio, dove erano ricoverati gli italiani che nelle miniere del Belgio si erano ammalati di silicosi. Ci scambiavamo i ruoli per dedicarci alla figlia senza chiedere alla nonna. Bisognava portarla a scuola e poi a nuotare, a pattinare. Oggi per fortuna si fanno 36 ore, ai nostri tempi erano 48 e gli stipendi erano molto bassi. All’inizio mi chiesi chi me lo aveva fatto fare. Ho fatto sacrifici perché era una struttura pubblica ed era un lavoro sicuro. In un albergo invece non sai.