In questi ultimi anni abbiamo assistito a un inaspettato ritorno di interesse nei confronti della figura e dell’opera di Saint-John Perse, originario di un’isola della Guadalupa, premio Nobel 1960 per la letteratura. In tale ambito si sono distinti editori come Crocetti e Medusa, con la rispettiva pubblicazione dei Poemi provenzali (2016) e Anabasi (’22) e di Lettere a mia madre dalla Cina (’16) e L’ossessione celeste (’21). È ora la volta di Segni d’amaro approdo (pp. 408, € 32,00) che le Edizioni Medhelan licenziano con testo francese a fronte e valida traduzione di Nicola Muschitiello mentre l’accurata postfazione è di Alessandro Rivali. La raccolta originaria, intitolata Amers, fu pubblicata da Gallimard nel 1957 e confluì, in forma rivista e corretta, nel secondo volume dell’Œuvre poétique, uscito nel 1960 per gli stessi tipi. Perse attese alla composizione della raccolta dal ’53 al ’56 (ma, probabilmente, la gestazione durò un decennio) e, tramite l’intermediazione di Jean Paulhan, ne anticipò alcune sequenze nei «Cahiers de la Pléiade» e nella «Nouvelle Revue Française». Suddivisa in quattro articolate sezioni, a loro volta frammentate in una costellazione di sottosezioni, la raccolta forma uno dei punti più alti e complessi di questa poetica, destinata, secondo Roger Caillois, «a consolidare le enumerazioni», precisando che «Ogni termine della serie prolunga quello che lo precede con una leggera inflessione di senso». È un paziente lavoro di scandaglio interiore ottenuto mediante una serie di approssimazioni verbali in cui «la felicità dell’essere corrisponde alla felicità delle acque».

Scrisse Auden, dopo aver ricevuto il testo tradotto in inglese da Wallace Forster, stampato a New York nel ’58 con il titolo Seamarks: «Leggendo tutte le poesie di Saint-John Perse si ha spesso l’impressione che ciascuna sia, per così dire, il frammento di un’unica grande opera». Tale aspetto è piuttosto evidente, nonostante ogni raccolta sia incentrata su una particolare tematica. Il tema affrontato in Amers è quello marino («Mi hanno chiamato l’Oscuro e il mio discorso era di mare»), sviluppato con un rigore e una sapienza compositiva supportati da un idioletto originalissimo che si avvale di termini specialistici derivanti dalle più svariate discipline: dalla botanica all’ornitologia, dalla geologia all’araldica, dall’alchimia alla mitologia. Simili elementi costituiscono una sorta di spartiacque tra la produzione precedente che dalle sillogi d’esordio rimanda al suo capolavoro Anabase (1924), tradotto da Eliot e Ungaretti, e quella successiva, cadenzata da varie prove fino all’esito testamentario del Chant pour un équinoxe. Quest’ultimo comprende quattro cicli poetici, di cui soltanto un paio accolti nel volume gallimardiano delle Œuvres complètes, apparso nella prestigiosa Bibliothèque de la Pléiade nel ’72.

Caso più unico che raro, fu lo stesso autore, avvalendosi della collaborazione non dichiarata dei succitati Paulhan e Caillos (da ricordare la sua Poétique de Saint-John Perse, 1954), a curare in forma anonima il volume della Pléiade, con tendenza a mitizzare episodi riportati nella sezione biografica, a proposito dei quali Joëlle Gardes parlerà di un «lavoro di sceneggiatura» declinato alla terza persona. Ma alcuni atteggiamenti, di taglio profondamente autentico, sono riconducibili alla sua indole libertaria, a cominciare dall’opposizione conclamata al nazismo che lo condurrà all’esilio americano, nonché alla perdita degli incarichi assunti in qualità di diplomatico, attività intrapresa fin dagli anni dieci, con lunghi soggiorni in Oriente (in Cina soprattutto) con il vero nome di Alexis Saint-Léger Léger, sulle orme dell’amico Claudel e di Victor Segalen.

Tuttavia l’opera di Saint-John Perse si configura all’insegna di un’ammirevole continuità stilistica e tematica, procedente a strappi; l’autore stesso in Exil aveva parlato di «una sola e lunga frase senza cesura per sempre inintelligibile». La parola non solo non conosce alcun baluardo ma si fa essa stessa baluardo, trasfigurandosi nella «tenera pagina luminosa contro la notte segreta delle cose». Visionarietà allo stato puro, atta a modularsi con lo stesso respiro che regola le maree. Saranno così figure archetipiche femminili, sine tempore, a fare da tramite fra il poeta e il «mare che si veste del suo colore d’olocausto». Vestali del nulla, Tragédiennes e Patriciennes conducono per mano il rabdomante a verificare quanto siano «stretti i vascelli», carpendogli parole salmodianti, sepolte nella «terra nuziale», al pari del «messaggio cifrato degli dèi».

E non sarà di secondaria importanza osservare che la traduzione doveva accogliere anche Vents (1945), che con Amers compone una sorta di «dittico narrativo». D’altronde la raccolta era già stata tradotta da Romeo Lucchese e occupava integralmente il terzo volume delle Opere poetiche, apparso da Lerici nel ’69. Fu scelto il titolo Segnali di mare, in quanto Amers, vocabolo che rimanda al linguaggio marinaresco, designa, come riportato dal Littré citato da Muschitiello nell’introduzione, «quei segni evidenti sulle coste, come campanili, torri, scogli, atti a guidare i naviganti che sono in vista della terra». Si è optato per un titolo che tenesse conto del significato principale («amari») e della componente polisemica: «Il sostantivo francese, che designa dunque dei punti di orientamento della costa, contiene il plurale di “mare” (mers) preceduto dalla particella a: come se in italiano potessimo dire gli “ammari”, o gli “amari”». L’insieme di queste variabili presuppone l’impossibilità di riprodurre con altrettanta stringatezza il titolo originale.

Muschitiello a volte penalizza la musicalità di Perse asservendola ai rari barlumi di senso rintracciabili nel testo. Rende «aisselle safranée» con l’improponibile «ascella zafferanata» mentre Lucchese, che certo non brilla per eleganza (si vedano le riserve avanzate a suo tempo da Quasimodo sugli interpreti italiani di Perse), aveva virato su «ascella sparsa di zafferano». Non bastava «ascella di zafferano»? Altre soluzioni andrebbero forse contestualizzate con apposite note: perché tradurre «L’Épée qui danse sur les eaux» con «Il Pesce Spada che danza nelle acque» anziché «La Spada che danza sulle acque», come ha fatto Lucchese? Si tenga conto che «pesce spada» in francese corrisponde a «espadon». Inoltre c’è forse l’eco del modo di dire «un coup d’épée dans l’eau» che significa azione inutile, vana.

Questioni di lana caprina, si dirà. Certo, ma suffragate dal fatto che Muschitiello riesce altrove a districarsi brillantemente nella non facile impresa di rendere fruibile un terreno quanto mai accidentato, basato sui saliscendi di un linguaggio cifrato, se non crittografato. Il titolo di una sottosezione, Langage que fut la Poétesse, reso pedissequamente da Lucchese con Linguaggio che fu la Poetessa, è qui vòlto nel più scorrevole Fu quello che disse, la Poetessa. Un altro specimen riguarda il versetto, tratto dalla sezione conclusiva Dédicace, «Mais notre front n’est point sans or. Et victorieuses encore de la nuit sont nos montures écarlates». Così Lucchese: «Ma la nostra fronte non è senz’oro. E le nostre cavalcature sono ancora vincitrici della notte». Questa invece la versione di Muschitiello, in cui sembrano riecheggiare ariose reminiscenze da Éluard, oltre che dai modelli veterotestamentari: «Ma la nostra fronte no, non è priva d’oro. E vittoriose ancora sulla notte sono le nostre cavalcature vermiglie». Mentre nel primo caso si lascia inspiegabilmente cadere l’aggettivo «écarlates», nel secondo, molto più risolto in chiave poetica, le «cavalcature» diventano «vermiglie», assecondando l’allitterazione con il termine «vittoriose». Se prescindessimo dal verbo «sono» presente nella seconda proposizione troveremmo due endecasillabi appaiati, di cui il primo a maiore, atti a testimoniare la composita tessitura metrica dell’originale.
Non resta che prendere congedo con il versetto in cui è idealmente racchiuso, sulla traccia di Eraclito, il felice apprendistato lirico di un autore impagabile e ancora poco conosciuto: «Mi hanno chiamato l’Oscuro e abitavo lo splendore».