L’oscurità della vita nella luce dell’arte
In mostra A Berlino «David Wojnarowicz. Photography & Film», le opere dell’artista che denunciò il silenzio sull’Aids
In mostra A Berlino «David Wojnarowicz. Photography & Film», le opere dell’artista che denunciò il silenzio sull’Aids
È aperta fino al 5 maggio a Berlino, presso il KW Institute for Contemporary Art (www.kw-berlin.de), la mostra David Wojnarowicz. Photography & Film 1978-1992, curata da Krist Gruijthuijsen. All’artista statunitense, morto di Aids nel 1992, il Whitney Museum di New York ha recentemente dedicato una grande personale chiusasi in settembre; ma l’esposizione nella capitale tedesca, inaugurata in coincidenza con l’apertura dell’ultima Berlinale, si concentra sull’attività fotografica e filmica di uno dei maggiori rappresentanti della scena sviluppatasi nel Lower East Side negli anni ’80, noto per la forza con cui seppe utilizzare diversi linguaggi denunciando l’epidemia di Aids da una prospettiva politica.
È infatti soprattutto su questo aspetto della sua attività creativa che si concentra il percorso espositivo a partire dalla nota opera One Day This Kid… (1990-91). L’ingrandimento in bianco e nero di una fototessera di Wojnarowicz da bambino è incorniciato da un testo che trasforma l’esperienza in una narrazione condivisa: «Un giorno questo bambino farà qualcosa per cui uomini in uniforme da prete o rabbino, vorranno la sua morte. Un giorno dei politici emaneranno leggi contro questo bambino. Un giorno le famiglie daranno informazioni false ai propri figli per rendere insopportabile la vita di questo bambino, indurlo al suicidio, al rischio di farsi uccidere o ridurlo al silenzio e all’invisibilità. Ma un giorno questo bambino parlerà».
La parola svela la violenza delle istituzioni, reagisce alla cultura familista statunitense e rovescia le rappresentazioni omofobe dominanti. Analoga è l’operazione che compie nel 1985 in Between C+D, un poster diviso in due: da una parte Wojnarowicz è fotografato a terra con il naso insanguinato, dall’altra scrive dell’omofobia ordinaria di un’epoca in cui, se si uccideva qualcuno, bastava dichiarare che la vittima era omosessuale e aveva tentato delle avances per essere scagionati.
CON L’AVVENTO dell’Aids, che l’opinione pubblica chiamava «cancro gay» rendendosi complice di una stigmatizzazione e di una disinformazione che agevolò la diffusione del contagio, il lavoro di Wojnarowicz esplorò la relazione tra la malattia del corpo individuale e la malattia del corpo sociale. In una stessa sala della galleria, si trovano la lettera con cui il compagno e mentore Peter Hujar ricevette la sua diagnosi l’8 gennaio 1987, le fotografie scattate sul letto di morte dello stesso nel 1989 e un video, girato da Phil Zwickler, in cui David è inquadrato in primo piano, metà illuminato e metà in ombra, e per più di 12 minuti tiene un discorso sulla malattia e sulla morte che è un pugno allo stomaco: «Non ho l’Aids perché mi sono fatto scopare senza preservativo ma per il modo in cui il governo sta gestendo l’epidemia».
Nel 1989 si fa fotografare da Andreas Sterzing con le labbra cucite in Silence=Death che riprende lo storico slogan della campagna di Act Up usato anche da Rosa Von Praunheim come titolo di un suo documentario (un’immagine che negli anni si è riproposta con grande impatto anche in contesti diversi, tra detenuti e migranti privati della loro libertà di movimento).
Oltre alle opere in cui l’arte incontra più frontalmente l’attivismo sono in mostra a Berlino anche alcune serie di fotografie rappresentative dell’immaginario dell’artista come la Rimbaud Series (1978-79) con il ritratto del poeta incollato al posto del volto di amici e passanti in scorci urbani tipici della New York di fine anni ’70, oppure la Ant Series (1988-89) in cui punk e surrealismo trovano una sintesi.
COME RICORDANO molti che lo conobbero, Wojnarowicz era allo stesso tempo brutto e bellissimo, goffo e pieno di fascino: nel 1990 Nan Goldin lo fotografò senza occhiali e con i capelli tirati indietro, mettendo in risalto la luce profonda dei suoi occhi chiari. In altri scatti è ritratto da Ivan Dallatana, Peter Hujar o Andreas Sterzing tra le rovine dei capannoni isolati sul fiume Hudson che fino ai primi anni Ottanta furono meta di chi come lui produceva in piena libertà graffiti e stencil. In quella zona decadente, luogo di battuage notturno per i più ardimentosi, in breve tempo si stabilirono locali e gallerie che privatizzarono gli spazi e iniziarono a trarne profitto.
Di lì a poco anche il Lower East Side iniziò a trasformarsi, preda della gentrification. Nel saggio The Gentrification of the Mind (2012), la scrittrice newyorkese Sarah Schulman osserva: «Non è una cospirazione ma un tragico esempio di coincidenza storica che proprio nel bel mezzo del processo di conversione dell’edilizia popolare in edilizia per benestanti, per essere precisi nel 1981, ebbe inizio l’epidemia dell’Aids». Chi moriva nel proprio appartamento veniva presto rimpiazzato da inquilini disposti a pagare affitti molto più cari e, finché verso la fine del 1989 il Comune di New York non varò il Rent Stabilization Act, i partner di chi moriva di Aids venivano sfrattati senza poter accampare alcun diritto.
Questi processi ebbero importanti conseguenze di normalizzazione sul panorama culturale della città: la mostra racconta anche quel periodo, un crinale oltre il quale ci siamo spinti ormai da tempo, come i bufali che cadono dal dirupo immortalati in Untitled (Falling Buffalo) del 1988-89.
MOLTO DEL LAVORO filmico dell’artista in super8 o in video è frutto di collaborazioni, con Phil Zwicker, Steve Doughton, Ben Neill: questi compose musiche per l’installazione e l’esposizione ITSOFOMO. In the Shadow of Forward Motion (1989) con un catalogo interamente realizzato mediante una fotocopiatrice che annovera un testo scritto appositamente da Félix Guattari a cui erano state inviate per posta alcune diapositive delle opere. Il grande schermo che campeggia al centro della sala principale della galleria è bifronte: da una parte scorrono lavori come Fear of Disclosure (1989) di Phil Zwickler, che ruotano attorno al rapporto tra sesso, paura, violenza e comunicazione, dall’altra si vedono le immagini simboliche girate in Messico e montate in A Fire in my Belly, a Work in Progress (1986-87): maschere demoniache, rovine azteche, sequenze di lotta libera tra luchadores, galli o tori.
Una delle collaborazioni importanti fu quella con la fotografa francese Marion Scemama che, in occasione della mostra, ha portato alla Berlinale Self-Portrait in 23 Rounds: a Chapter in David Wojnarowicz’s Life 1989-1991, documentario di montaggio con materiale inedito tratto dall’archivio privato della regista e di Wojnarowicz. Da questo sodalizio sono nate pellicole e video in cui l’immagine si congiunge con l’abilità di scrittore di Wojnarowicz come Inside This Little House (1989) in cui, mentre la voce di lui recita un proprio testo poetico, scorrono le immagini di una casa in fiamme, una delle firme iconiche dell’artista insieme a quelle del ragazzo in fiamme e del cavallo in fiamme.
In Last Night I Took a Man (1989-90) David racconta in prima persona un incontro sessuale interrotto brutalmente quando comunica al partner di essere sieropositivo. In When I Put my Hands on Your Body (1989) David, già malato, bacia e accarezza Paul Smith. Nel libro David Wojnarowicz, A Definitive History of Five or Six Years on the Lower East Side (2006) in cui Sylvère Lotringer intervista i sopravvissuti tra coloro che conobbero e collaborarono con David, Scemama ricorda la forte eccitazione durante le riprese di quel video: «La videocamera divenne letteralmente una ‘macchina-desiderante’, una cinghia di trasmissione tra le nostre rispettive fantasie, capace di scongiurare il crescente sentimento di morte che ci circondava. Era come se la luce della morte riuscisse a illuminare l’oscurità della vita».
QUESTO STESSO intreccio tra sensualità, amore e morte si ritrova anche nelle altre due esposizioni ospitate in contemporanea presso il KW Institute for Contemporary Art: una personale che ricostruisce il percorso e l’opera del regista teatrale iraniano Reza Abdoh (anch’egli attivo negli Stati Uniti tra gli anni Ottanta e Novanta e vittima della ‘piaga’) e un’altra dedicata a Frank Wagner, curatore che per primo a Berlino dedicò una grande mostra al rapporto tra arte e Aids. Entrambe visitabili fino al 5 maggio.
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