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Los once, giorni di terrore in Colombia

Ventotto anni dopo i giovani fumettisti Andés Cruz, José Luis e Miguel Jiménez raccontano il massacro

Pubblicato più di 11 anni fa

 

Mentre è in corso, tra il governo e la guerriglia delle Farc, il più serio tra i negoziati di pace finora tentati, in Colombia un fumetto riapre una delle pagine più dolorose della sua storia. O, meglio, un fumetto e due colpi di scena giudiziari.

Los once, gli undici: così si chiama il cómic, tanti (forse) sono i desaparecidos (quasi) ufficiali di un tragico giorno di novembre del 1985. Tutti lo conoscono come el Holocausto. L’allora formazione guerrigliera M-19 assalta il Palazzo di Giustizia. Un’azione spettacolare nel cuore di Bogotà, di fronte al Congresso e ad un isolato dalla residenza presidenziale. Solo che nel giro di 28 ore, l’esercito lo riconquista in un bagno di sangue. Due giorni di terrore, ma anche di silenzi e di sparizioni.

A tutt’oggi, 28 anni dopo, nemmeno sul numero di vittime si concorda, ci si rinfaccia le responsabilità e si tentenna sui desaparecidos:11 infatti, tra ostaggi e guerriglieri, usciti vivi dal palazzo, sarebbero scomparsi nel nulla, anche se per lo Stato solo due persone mancano all’appello. Segreti e bugie, in questa vicenda si moltiplicano.

Andrés Cruz, José Luis e Miguel Jiménez, che all’epoca avevano due o tre anni e che di professione fanno gli illustratori, hanno pensato che la memoria bisogna affrontarla. Così è nato Los once. Ricorda a prima vista il Maus di Art Spiegelman: anche qui i protagonisti sono dei roditori che devono sopravvivere alla tragedia. Ma non ci sono dialoghi, le strisce hanno tratti veloci e di grande poesia visiva. Il terrore di Stato appare sotto forma di lupo feroce. I corvi rinviano agli assalitori. Emoziona l’atmosfera e colpisce la maestria con cui viene ricostruita. «Ci è sembrato un buon modo per arrivare ad un pubblico molto vasto, soprattutto giovane e anche internazionale – ci racconta José Luis Jiménez – Su quei fatti si scontrano pezzi di verità e posizioni ideologiche. Noi volevamo creare uno spazio di riflessione, pubblico e partecipato».

Interamente auto-finanziato via crowdfunding, una raccolta di micro-finanziamenti web su una piattaforma tutta colombiana (La Chévre), il fumetto è stato lanciato nei giorni scorsi dalla crew, che si chiama Sharpball, con la diffusione di una applicazione da scaricare gratuita. Un’iniziativa senza precedenti, che sta facendo discutere il paese sudamericano e che ha il supporto dell’associazione di familiari delle vittime: «a loro ci siamo avvicinati delicatamente – aggiunge Jiménez – costruendo fiducia ed offrendo responsabilità e rispetto».

Il progetto editoriale, per di più, arriva a poche settimane da due fatti giudiziari che hanno riportato el holocausto sulle prime pagine dei quotidiani colombiani. Uno viene dalla Corte interamericana per i diritti umani, cui si sono appellati contro lo Stato i familiari delle vittime. Solo che l’avvocato incaricato dallo Stato è stato costretto a dimettersi cinque giorni prima che scadesse il termine per depositare gli atti, si dice minacciato, forse da settori delle forze armate. E il nuovo legale? Lui ha presentato un dossier in cui si respinge qualunque responsabilità e si nega che sia mai scomparso qualcuno quel giorno. Una mossa shock, controcorrente rispetto a tutte le ricostruzioni, compresa quella della Commissione per la verità del 2009.

Mentre il Governo affrontava la Corte interamericana, un tribunale di Bogotà emetteva la prima sentenza, dopo quasi tre decenni, contro il commando dell’M-19, comminando 28 anni a 8 persone. A fare più scandalo, in realtà, è che tra di loro figura Irma Franco, proprio una di quei desaparecidos mai riconosciuti. La tivù l’ha ripresa quel tragico giorno del 1985, mentre usciva trascinata dai soldati. E chissà in quale fossa comune è finita.

«Quel massacro è l’emblema dell’infinito conflitto colombiano», ci dice amaro Sigifredo Leal Guerrero, antropologo, che sulla vicenda sta concludendo una ricerca all’Università di Francoforte. Anche lui, al tempo, aveva 4 anni.«Il problema – dice – è comprendere perché la Colombia non sia in grado di fare i conti con quei fatti».

Allora, bisogna ritornare alla mattina del 6 novembre 1985, quando 35 militanti dell’M-19 fanno irruzione al Palazzo di Giustizia, un grande e cupo edificio nella centralissima Plaza de Bolivar. Entrano sparando per neutralizzare le guardie, prendono in ostaggio 350 persone, tra cui l’intera sessione di alti magistrati e tutti gli impiegati. Il presidente Belisario Betancur rifiuta qualsiasi mediazione e dà subito il via all’assalto da parte dell’esercito.

«La guerriglia colpiva al cuore del potere giudiziario dello Stato e in piena capitale – ci spiega Leal Guerrero – La classe media urbana per la prima volta vedeva in tivù e dal vivo il terrore». E scioccante è l’immagine di un blindato che sale la gradinata del palazzo e sfonda il portone principale a cannonate. E’ un massacro. Verranno trovati 94 corpi. Poi l’incendio.

Prima che l’edificio diventi un cumulo di macerie, cominciano ad uscire delle persone. Sono accompagnate dai militari fino ad una caserma. C’è chi resta vivo e chi scompare per sempre. Tra quest’ultimi c’è Irma Franco. Ma c’è anche chi, tra i vivi, viene trovato morto il giorno dopo con un colpo di pistola alla testa: è il caso di Carlos Horacio Urán Rojas, magistrato in vista per le inchieste sulla guerra sporca e gli abusi dei militari.

«Abbiamo sempre vissuto in una democrazia bonapartista – dice l’antropologo – E i militari hanno ancora una grande influenza. All’epoca hanno risposto alla sfida, con un’operazione di terrore di Stato esorbitante. E anche un po’ classista: tra i desaparecidos ci sono tutti e 7 i lavoratori della caffetteria e il gestore, forse sospettati di essere complici dei guerriglieri, solo perché poveri».

Tra chi guidava le operazioni, c’è il colonnello Alfonso Plazas Vega. Non il più alto al comando, ma l’unico a finire condannato da un tribunale, assieme ad un altro militare, Jesús Armando Arias Cabrales. Orgogliosi del loro compito, «in nome della lotta al comunismo e della supposta incapacità dello Stato democratico a farvi fronte – sottolinea Leal Guerrero – E’ la stessa meta-narrazione dei militari golpisti argentini e cileni: tutti loro dipingono la giustizia come un atto di umiliazione pubblica e di vendetta delle loro vittime di un tempo, dei comunisti infiltrati nello Stato».

Da qui forse è precipitata la sentenza contro Irma Franco e i fantasmi dell’M-19. E, magari, così si capisce perché ci siano pezzi di istituzioni che ancora non vogliono ammettere alcuna responsabilità. Per questo, il successo de Los Once assume un valore tanto esplosivo nel Paese, dove il potere finisce interrogato da un cómic e dauna banda di giovani fumettisti.

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