Wylie, Texas, venerdì 13 giugno 1980. Se non fosse per quella data inquietante (circa un mese prima era uscito in sala Friday the 13th), sarebbe un giorno come tanti altri, in una piccola città dove la vita della comunità sembra un continuo transitare dalla casa alla chiesa, dalla chiesa alla casa, con brevi intervalli al cinema, nella piscina dove portare i bambini (in alternativa al catechismo), in palestra per giocare a pallavolo, nei ristoranti dove accumulare calorie e proteine. Vi sarebbero anche i motel dove prendersi una pausa dai monotoni ritmi famigliari e sperimentare nuove pose sessuali, e ritrovi nei quali riconquistare immediatamente quella monotonia, confessando i propri peccati al partner, in attesa di compierne altri.
Quella mattina, Betty Gore sta ancora dormendo e forse le piacerebbe restare sdraiata, ma il pianto della figlioletta è di quelli insistenti. Sperare che se ne occupi Allan, è come immaginare che esista un teletrasporto in grado di spostare la bimba direttamente dalla culla al letto matrimoniale.

BETTY era un’insegnante, una che aveva studiato e che poteva raggiungere altri traguardi. Poi ha immolato la sua vita per la famiglia, in particolare per un marito assente che viaggia nei fine-settimana e che preferisce non misurare il livello di disagio esistenziale raggiunto dalla moglie. Due figlie, un ambiente ostile, la sensazione di aver smarrito il senso d’orientamento. Infine, l’idea terrorizzante di essere nuovamente incinta. Per Betty, insomma, è una mattina come tante altre ed è proprio questo il dramma.
La casa di Candace Montgomery è decisamente più vivace. I bambini sono eccitati. Dopo un’attesa che sembrava infinita, è arrivato L’impero colpisce ancora, il secondo episodio di Star Wars. Non sanno che dopo qualche decennio si trasformerà nel quinto. In quel caos, Candy, come sempre, ha preparato la colazione e stabilito l’andamento della giornata. Lei ordina e tiene a bada la realtà. Indomabile per tutti tranne che per lei. E per questo, al contrario di Betty, è una cittadina amata dalla piccola comunità di Wylie.
Intanto suo marito Pat si diverte a riassumere l’inizio della saga creata da George Lucas. I figli l’ascoltano. Nel piccolo gruppetto è compresa Christina, la primogenita di Betty, che ha dormito fuori e si fermerà una notte in più dai Montgomery per scoprire cosa accadrà a Luke e Leila. Prima però due obblighi: catechismo e piscina. Per completare uno dei tanti piani orditi da Candy, manca un dettaglio. Andare da Betty e prendere il costume da bagno di Christina.

SEMBRA una deviazione insignificante. Una di quelle cose da sbrigare per poi riavviare il nastro della quotidianità e tornare a essere perfetta. Non è così. La porta di apre, si chiude e dopo un po’ si riapre. Potrebbe essere passato tanto tempo o forse no. Percezioni, punti di vista. Di sicuro, qualcosa è cambiato. La morte violenta di Betty, il sangue addosso a Candy, un’ascia per terra (tre settimane prima sui grandi schermi era apparso Jack Torrance e The Shining). In altre parole, l’orrore nel mezzo di una mediocre giornata di inizio anni ’80.
Nick Antosca e Robin Veith, i creatori della miniserie in cinque puntate Candy – Morte in Texas, visibile su Disney + da circa una settimana, non sono i primi a essersi occupati delle vicende drammatiche che hanno portato alla morte di Betty Gore. Già nel 1984, John Bloom e Jim Atkinson hanno scritto un libro, Evidence of Love: A True Story of Passion and Death in the Suburbs. Sei anni dopo, è toccato a Stephen Gyllenhaal dirigere un film per la televisione, A Killing in a Small Town, mentre Hbo sta portando avanti un progetto, Love and Death, per il prossimo anno.

UNA STORIA, quella ottimamente interpretata da Jessica Biel (Candy) e Melanie Lynskey (Betty), che non è il morboso interesse per un delitto e per le passioni che lo hanno alimentato. Candy – Morte in Texas è anche il racconto di una collettività che si mimetizza dietro abitudini e riti. Che non riesce a fondarsi su relazioni spontanee. Che accoglie al suo interno gesti meccanici e parole prive di autenticità. Una volta di più, una narrazione sul delirio di un’umanità «moderata», capace di brandire un’ascia e di cantare nel coro della chiesa.