L’Orontea barocca, dentro i meccanismi eterni dell’eros
A teatro Prima volta in assoluto sul palco della Scala per l’opera dell’aretino Antonio Cesti
A teatro Prima volta in assoluto sul palco della Scala per l’opera dell’aretino Antonio Cesti
Se si fa eccezione per l’allestimento del lontano 1961 nell’ormai demolita Piccola Scala sotto la direzione di Bruno Bartoletti, L’Orontea dell’aretino Antonio Cesti, che debuttò poco più di tre secoli prima, nel 1656, al Teatro di Sala di Innsbruck, è approdata lo scorso 26 settembre per la prima volta in assoluto sul palcoscenico del Teatro alla Scala di Milano, inserendosi nel programma di riscoperta del melodramma italiano delle origini voluto da Dominique Meyer accanto ai precedenti La Calisto di Cavalli e Li zite ngalera di Vinci. Messo in musica da altri quattro compositori nel corso del Seicento, il fortunatissimo libretto di Giacinto Andrea Cicognini, con qualche ritocco di Giovanni Filippo Apolloni, nelle mani di Cesti divenne una delle opere più rappresentate del secolo, dopo la sua stessa Dori e Il Giasone di Cicognini e Cavalli.
IL SOGGETTO declina alcuni tòpoi che derivano dalla commedia dell’arte e dal teatro spagnolo: la donna nobile che rifugge l’amore (l’eponima Orontea, regina d’Egitto), ma poi s’innamora, ricambiata, di un giovane povero e donnaiolo (il pittore Alidoro); l’identità perduta e ritrovata dopo varie peripezie grazie a un’agnizione finale (Alidoro scopre di essere figlio del re dei Fenici); le annesse scene con il lamento dell’amante disprezzato, la donna tradita e furiosa, il ritrovamento degli oggetti rivelatori (il medaglione che prova le origini di Alidoro); le tresche amorose che generano gelosie, strazi, dubbi e risoluzioni più o meno drastiche (di Alidoro si innamora, inizialmente ricambiata, anche Silandra, amata da Corindo); gli scambi di persona e i travestimenti (la vecchia Aristea si invaghisce di Giacinta in abiti virili); i siparietti comici (Gelone e Tibrino scherzano sui piaceri della vita e del vino, schernendo le pene d’amore) che contaminano lo stile serio dei nobili amorosi spasimanti con quello triviale dei loro sottoposti.
A DIRIGERE l’orchestra c’è il maestro Giovanni Antonini, al suo sesto titolo in Scala, mentre la regia è affidata a Robert Carsen, al quattordicesimo titolo, già corresponsabili nel 2019 del grande successo del Giulio Cesare in Egitto di Händel. Come quasi sempre Carsen, grazie anche alle scene e costumi di Gideon Davey e alle luci dello stesso regista e di Peter van Praet, traspone la vicenda antica, di un’antichità melodrammaticamente di maniera e per sua essenza transtemporale, nel mondo contemporaneo, scavando dentro i meccanismi eterni dell’eros (la seduzione, l’inganno, lo stupore) e allo stesso tempo dentro la macchina della rappresentazione barocca, che di quei meccanismi si nutre, ammantandoli in questo caso dell’ironia irresistibile di Cicognini e Apolloni: Orontea diventa una donna di potere della Milano di oggi, figura di riferimento nel mondo dell’arte, quasi una Prada in sedicesismo, che a quel potere è pronta a rinunciare per amore di Alidoro. Antonini amministra il ritorno incessante di personaggi, situazioni, temi con un gusto della variazione e della sfumatura di una leggerezza così traslucida da diventare abbagliante, staccando tempi talvolta danzerecci talvolta malinconici.
SUL PALCO Stéphanie d’Oustrac (Orontea), Francesca Pia Vitale (Silandra), Carlo Vistoli (Alidoro), Hugh Cutting (Corindo), Mirco Palazzi (Creonte), Luca Tittoto (Gelone), Maria Nazarova (Giacinta), Sara Blanch (Tibrino) e Marcela Rahal (Aristea) iniettano nella macchina di Carsen/Antonini l’inarrestabile linfa della vita.
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