«Inediti kafkiani»: due parole sufficienti a generare, in Germania e negli altri paesi dell’area tedesca, da un anno a questa parte, un rincorrersi di entusiasmi di cui raramente si è visto l’eguale, almeno negli ultimi decenni. Non poche delle manifestazioni kafkiane che si annunciano per la ricorrenza del centenario della morte, nel 1924, saranno incentrate su questi inediti. La singolarità della circostanza dipende, tuttavia, dal fatto che l’annuncio non riguarda le irrintracciabili «tremila righe» di scritti giovanili che Kafka inviò all’amico Oskar Pollak nel 1902 – comprensivi dell’unico romanzo da lui mai completato – ma l’insieme dei disegni, degli schizzi e degli abbozzi, non meno giovanili, che l’amico Max Brod raccolse, ricavandoli da vari supporti, durante la vita dello scrittore o dopo la sua morte.

Per molto tempo la maggior parte dei Disegni di Kafka – ora in un volume edito da Adelphi (traduzione di Ada Vigliani, con una nota di Roberto Calasso, Fuori collana, pp. 367, euro 48,00) erano rimasti chiusi, insieme al lascito di Max Brod, nella famosa cassetta di sicurezza di Zurigo, divenuta oggetto di una contesa legale durata più di un decennio e risolta definitivamente nel 2019 con la consegna di tutto il materiale alla Biblioteca nazionale di Gerusalemme. La ricognizione, la raccolta e la pubblicazione dei disegni è stata curata da Andreas Kilcher, germanista dell’università Zurigo e specialista di storia della cultura e della letteratura ebraico-tedesche: fin qui i dati di fatto. Ma l’ovvio problema che questi singolari disegni pongono sta nel loro significato in relazione all’opera dello scrittore e a questo punto, si potrebbe dire, cominciano i problemi.

Dei circa 160 disegni e schizzi contenuti nel volume ne erano noti finora una quarantina, fra cui quelli a china dai quali l’editore tedesco, Fischer, trae le copertine per le edizioni tascabili dei romanzi e dei racconti: opere con cui, però, quei disegni non hanno direttamente a che fare essendo stati realizzati fra il 1901 e il 1907, quando il Kafka scrittore non era, quasi, ancora nato. All’epoca dei grandi risultati della scrittura kafkiana risalgono invece pochissimi disegni e schizzi, peraltro noti in quanto presenti in lettere edite o manoscritti pubblicati nell’edizione critica curata da Roland Reuss e Peter Staengle: sono quasi esclusivamente disegni funzionali a illustrare sommariamente qualcosa a qualcuno (soprattutto a Felice Bauer e a Milena Jesenská) o a corredo di quaderni in cui appaiono ben più importanti lavori letterari. Parrebbe dunque mancare qualsiasi appiglio per mettere in relazione i disegni con l’opera narrativa; e bisogna dire che Kilcher, eccellente filologo, non offre in proposito, nelle pagine del saggio posto a chiusura del libro (Disegnare e scrivere in Kafka), argomenti davvero stringenti. Al contrario, i brevi appunti aggiunti all’edizione adelphiana da Roberto Calasso (forse, come usava fare negli ultimi tempi, a corredo migliorativo di uno scritto che non lo convinceva) risultano illuminanti.

Procedere per variazioni
Nelle sue annotazioni, Calasso non fa altro, in fondo, che estrarre storie o idee di storie dai bozzetti kafkiani: sembra un orientamento critico singolare, ma per questa via coglie il valore di quei disegni e anche, implicitamente, il loro nesso profondo non tanto con la scrittura, quanto con la forma generale della creatività kafkiana. Quelle storie sono infatti immaginate a partire dalle figure ricorrenti negli abbozzi, raggruppate per insiemi omogenei: uomini «storti» e «dritti», soggetti che si ripetono e personaggi che sembrano riapparire. Allo stesso tempo si prendono in considerazione i disegni kafkiani per quello che sono: schizzi improvvisati in un periodo limitato di tempo, esperimenti concentrati su pochissime forme replicate fino a trovare, sia pure di rado, una configurazione ultima. In questo, si potrebbe dire, Kafka è già Kafka.

La sua scrittura nasce infatti, assai più di quanto non si pensi, da un procedimento di variazione che solo in parte le opere maggiori e i frammenti mettono in luce: per farsene un’idea basta pensare al famoso caso del desiderio di trasformarsi in insetto attribuito a Eduard Raban nei Preparativi di nozze in campagna del 1906 e alle conseguenze che quel pensiero produce sei anni dopo nella Metamorfosi. Bisogna però immergersi nei manoscritti kafkiani per vedere direttamente come immagini, forme e riflessioni, vi siano sottoposte a processi di trasformazione a volte fulminei e a volte lunghi o lunghissimi prima di concretizzarsi in una scena o in una narrazione compiutamente sviluppata. Se questo è un procedimento assolutamente necessario alla creatività kafkiana, allora i disegni, per lo più giovanili, sono il documento più chiaro, indispensabile e, per certi versi, persino commovente della lotta per conquistare una propria fisionomia creativa; che nasce da un fondamento figurativo e seguiterà anche nell’opera narrativa a generarsi da immagini e a produrre immagini. Per questo e, forse, solo per questo risulta così facile e perspicuo accostare i disegni di Kafka a narrazioni realizzate ben dopo la loro nascita: ad avvicinarli è la natura profondamente immaginifica della scrittura.

Espressioni giovanili
Il libro contiene molti esempi parlanti, grandi e piccoli, della tecnica di variazione kafkiana. Un gruppo di ectoplasmi (in cui Brod riconosceva degli esseri danzanti) compare per la prima volta su un foglio volante risalente con ogni probabilità agli anni degli studi universitari e circonda come in un girotondo un personaggio, ritratto in abito da sera, con grandi occhi sbarrati (dis.3) ; torna poco dopo, osservato da una figura in piedi appoggiata a una balaustra (dis. 8 e 30, dove ricompare l’uomo in smoking) per riemergere, sempre rappresentato come un gruppo di tre figure, nel quaderno dei disegni più o meno coevo (diss. 98, 101, 102) e, infine, ai piedi di una pagina di diario del 1909 (dis. 137); ricorrono cavalieri (diss. 10 – uno dei più notevoli – 56, 57, 63, 142 – alla guida in una carrozza e a corredo di un frammento ricollegabile alla raccolta Un medico di campagna); coppie formate da una figura panciuta e una più esile (diss. 41, 43, 44, 45, 46); una serie di variazioni su uno spadaccino in cui Kilcher riconosce possibili riprese del «Gladiatore Borghese» descritto dal diario (Diss. 89, 105, 106, 116).

La serie che certamente desterà maggior attenzione, al primo sguardo, è composta da tre (o quattro) autoritratti in cui Kafka si rappresenta dapprima con un lieve sorriso e lo sguardo rilassato (dis. 80) e poi, via via, in modo sempre meno compiuto e con espressione vieppiù inquieta (Diss. 82, 83, 84). Difficile immaginare un Kafka più esemplare di questo. D’ora in poi il lettore saprà dove andare a ricercare le origini, forse impensabili, certamente inattese, della sua grande narrativa.