Andrea del Verrocchio, «Dama dal mazzolino», 1475 ca., Firenze, Museo del Bargello, probabile ritratto di Lucrezia Donati
Andrea del Verrocchio, «Dama dal mazzolino», 1475 ca., Firenze, Museo del Bargello, probabile ritratto di Lucrezia Donati
Alias Domenica

Lorenzo de’ Medici, a 15 anni con Virgilio Dante e Petrarca

Classici italiani Nel poemetto bucolico «Corinto», ora a cura di Christian Rivoletti per Tallone, un Lorenzo de’ Medici innamorato (Lucrezia Donati) intreccia temi classici e quotidiano con libertà speculativa
Pubblicato circa un mese faEdizione del 20 ottobre 2024

«O Galatea, perché tanto in dispetto / hai Corinto pastor, che te ama tanto? / Perché vuoi tu che muoia il poveretto? // Qual siano i miei sospiri e il tristo pianto / odono i boschi, e tu, Notte, lo senti, / poich’ io son sotto il tuo stellato ammanto. // Sanza sospetto i ben pasciuti armenti / lieti si stanno nella lor quïete, / e ruminando forse erbe pallenti».

Così si lamenta il giovane pastore sospirando per una ninfa bella, insensibile e crudele, nel Corinto, un delizioso poemetto in terza rima di Lorenzo de’ Medici che si ispira, già a partire dai nomi dei protagonisti, alle Bucoliche virgiliane.

La genesi del Corinto, scritto nel 1464-’65, affonda le radici nella realtà biografica del giovanissimo autore – Lorenzo ha quindici anni – che è innamorato, come testimoniano anche diverse lettere inviate allo stesso Lorenzo dai suoi amici, di una fanciulla di nobile famiglia, Lucrezia Donati. Il poemetto è riproposto ora, in una elegantissima veste tipografica: Lorenzo de’ Medici, Corinto, a cura e con un saggio introduttivo di Christian Rivoletti, Tallone Editore (pp. 83, € 120,00).

Nella ricca Introduzione, dopo aver ricordato i momenti principali del genere bucolico, e la sua fortuna a Firenze proprio agli inizi del Quattrocento, Rivoletti ricostruisce i diversi livelli del testo – il classicismo della tradizione antica (greca e latina), il realismo della tradizione popolare italiana e le movenze auliche della lirica volgare – e ne mette bene in rilievo il loro originale intrecciarsi.

Questi diversi elementi sono già leggibili nei versi citati all’inizio: poveretto appartiene al linguaggio familiare e popolare; sospiri … pianto è stilema petrarchesco; stellato ammanto è anche nelle Stanze del Poliziano; erbe pallenti è Virgilio, Bucoliche, VI, 54: «pallentis ruminat herbas». E Virgilio sarà presente anche più avanti: frigido serpente (v. 42) è «frigidus … anguis» di Bucoliche, VIII, 71; lento salcio (v. 62) è «lenta salix» di Bucoliche, III, 83 e V, 16.

E la stessa prima frase del Corinto – «La luna in mezzo alle minori stelle / chiara fulgea nel ciel queto e sereno, / quasi abscondendo lo splendor di quelle, // e ’l sonno avea ogni animal terreno / dalle fatiche lor dïurne sciolti: / e ’l mondo è d’ombre e di silenzio pieno» – è una «commistione», dove una citazione di Orazio – «nox erat et caelo fulgebat Luna sereno / inter minora sidera» (Epod. XV, 1-2) – si salda ai versi, anch’essi incipitari, del canto II dell’Inferno di Dante: «Lo giorno se n’andava, e l’aere bruno / toglieva gli animai che sono in terra / da le fatiche loro…».

Ma nella «commistione» gioca un ruolo decisivo il livello popolareggiante e quotidiano: pochi versi più sotto, troviamo l’aggettivo «soletto» (v. 11) in rima con «poveretto» (v. 15), e più avanti, nel bel mezzo dell’immagine idillica e aerea della ninfa danzante, affiora l’espressione «dar al vento qualche calcio» (v. 66).

Intensissimo, ma per nulla inerte, il legame con Petrarca. «Spesso – scrive Rivoletti – lo stesso motivo petrarchesco viene liberamente rielaborato in maniera più concreta e realistica rispetto all’originale, come nel caso dell’immagine della pioggia di fiori descritta nei versi 68 e seguenti che si ispira a una stanza della celebre canzone Chiare, fresche et dolci acque (RVF CXXVI)». Alla atmosfera edenica del nembo floreale in Petrarca si oppone nel testo di Lorenzo «la consistenza realistica delle azioni del “cogliere” (v. 68), “far piovere” (v. 69) e “far ghirlande” (vv. 73-74)».

Il mito petrarchesco della presenza in absentia dell’amata ricorre nei vv. 56-57: «Non so se sei qui presso; so ben ch’io, / fuggi dove tu vuoi, sempre son teco», e ritorna anche nel sonetto XVII del Canzoniere, che così viene chiosato nel Comento: «Ritrovandomi in un luogo amenissimo dove era uno chiaro e abundante fonte, nel quale perpetuamente l’acqua, cadendo da alto, faceva un dolcissimo mormorio, a me pareva che quel mormorio continuamente dicesse el nome della donna mia. (…) Aiutava questo dolcissimo inganno lo essere già suta la donna mia in questo luogo amenissimo e avere guardato nel fonte, che di necessità era diventato suo specchio, perché per qualche tempo aveva pure ritenuto in sé quella chiarissima acqua la effigie bellissima della donna mia».

Ma il motivo del sonetto petrarchesco di RVF XLV, dove lo specchio è l’«adversario» del poeta perché la donna che in esso si guarda come Narciso «colle non sue bellezze» s’innamora, viene rovesciato e suggestivamente cambiato di segno nel Corinto, ai vv. 100-111, dove il pastore cerca invano l’immagine della ninfa nella fonte dove si è poc’anzi specchiata: «Ma che päura dentro al cor mi nacque, / che non facessi come già Narciso, / a cui la sua bellezza troppo piacque, // quando al bel fonte ti lavasti il viso, / poi, queta la tempesta da te mossa, / miravi nel tranquillo specchio fiso! // Ah mente degli amanti stolta e grossa! / Partita tu, là corsi, non credendo / la bella effigie fussi indi remossa: // guardai nell’acqua, e, te non vi vedendo, / vidi me stesso; e parvemi esser tale, / da non esser ripreso, te chiedendo».

Per l’intensità del sentimento amoroso – l’affannosa e continua ricerca della presenza dell’amata – una dimensione speculativo-esistenziale percorre, al di là delle convenzioni del genere pastorale, l’intero testo, per manifestarsi in modo più libero e scoperto nel finale.

Qui la riflessione sulla fugacità dell’esistenza e l’invito a cogliere il presente richiama immediatamente alla memoria il tema del «carpe diem», così centrale per Lorenzo: «Nostro solo è quel poco ch’è presente, / né il passato o il futuro è nostro tempo: / un non è più, e l’altro è ancor nïente».

Per l’immagine che precede, quella di un roseto, Lorenzo si ispira all’elegia pseudo-virgiliana De rosis nascentibus, ma allontanandosi dalla preziosa aura mitologica del modello, la rievoca come un’apparizione inaspettata – «L’altra mattina in un mio picciolo orto / andavo …» – e descrive, in splendidi versi intensamente elegiaci, il nascere e il morire delle rose: «Eranvi rose candide e vermiglie: / alcuna a foglia a foglia al sol si spiaga, / stretta prima, poi par s’apra e scompiglie; // altra più giovenetta si dislega / a pena dalla boccia; eravi ancora / chi le sue chiuse foglie al’aere niega; / altra, cadendo, a piè il terreno infiora. // Così le vidi nascere e morire / e passar lor vaghezza in men di un’ora. // Quando languente e pallide vidi ire / le foglie a terra, allor mi venne a mente / che vana cosa è il giovenil fiorire».

In questo personalissimo finale, che compare solo nella versione più tarda del 1485-’86, è consegnato, come scrive Rivoletti, il senso complessivo del poemetto: «Nel finale del Corinto, la spontaneità e la casualità della riflessione esistenziale vengono sottolineate dall’espressione “allora mi venne a mente” (v. 179; espressione che, si badi bene, è completamente assente nell’elegia del De rosis): la sentenza finale dei vv. 181-183 nasce dunque da un attimo di distrazione che, come per caso e per un breve lasso di tempo (“in men di un’ora”, v. 177), indirizza lo sguardo del protagonista verso un evento semplice e quotidiano e, nell’osservazione minuta e naturalistica, riesce quasi inaspettatamente a trasformare quell’evento in significato profondo, a far sì che per un istante l’io lirico ci parli e ci riveli l’essenza di un suo pensiero».

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