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Loredana Bianconi, storie di migranti

Loredana Bianconi, storie di migranti

Intervista L'autrice parla di «Des portes et des déserts», pellicola che elude ogni espediente tradizionale, azionando invece uno sguardo sperimentale che rende ancor più potente la riflessione

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 16 luglio 2022

«Figlia» dell’emigrazione italiana in Belgio degli anni Cinquanta, paese dove il padre era andato a lavorare, Loredana Bianconi ha indagato nella sua filmografia – avviata nel 1989 con La mina, esordio ibrido che contiene scene di finzione e immagini d’archivio della vita dei minatori – la pluralità delle migrazioni, lo spaesamento dei corpi e delle menti (co)stretti nel movimento, nel disagio del vivere il doppio altrove della nuova destinazione e dei luoghi natii abbandonati e, forse, ritrovati. Un altrove vissuto in prima persona (il Belgio dove Bianconi vive, a Bruxelles, l’Italia del paese d’origine emiliano di Borgo Tossignano) oppure cercato sulle mappe della Storia: le colonie fasciste in Africa (Oltremare), l’Albania occupata dagli italiani nel 1939 e quella della fuga degli abitanti verso l’Italia negli anni Novanta (In Albania), il Mediterraneo delle traversate per mare dei migranti nella sua opera più recente, Des portes et des déserts, nella quale si sentono echi dell’approccio alla memoria di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi.

«Des portes et des déserts» parla dei migranti eludendo ogni espediente tradizionale, azionando invece uno sguardo sperimentale che rende ancor più potente la riflessione. Una sorta di «Spoon River» raccontata dai naufraghi attraverso le frasi «deposte» sulle immagini e che formano il tessuto narrativo del film. Qual è stato il punto di partenza?
Il film è basato sui racconti che mi hanno consegnato rifugiati e richiedenti asilo incontrati in più di due decenni nei cosiddetti Centri di accoglienza – che eufemismo – in Belgio, in Italia e altrove. All’inizio viene il testo. Ho voluto rielaborare il linguaggio «crudo» delle loro testimonianze per tentare di ri-semantizzare le parole, tras-porle in un testo epico. Sono arrivata alla scelta radicale delle «voci mute», le frasi che prendono «voce», volevo che ognuno, ogni spettatore, leggesse con la propria voce interiore, il proprio tono, timbro: come nella lettura in solitario. Sentivo il bisogno di provare a raccontare altrimenti un reale sempre più inumano: l’inferno, la tragedia a causa di muri, frontiere, leggi assassine. La mia collera, il mio dolore, il sentimento di impotenza: come farlo evitando messaggi, slogan, mantenendo una certa distanza?

Ciascuno dei miei film si organizza in un racconto le cui forme cercano di tradurre una ricerca, una sperimentazione legata al reale. Non uno stile unico, quindi, ma una diversità di forme cinematografiche che vanno dalla testimonianza alla fiction, alla costruzione e messa in scena del documentario. Poi ci sono le immagini d’archivio da selezionare, re-inquadrare, ricolorare per focalizzare dei dettagli, riappropriarmi di esse offrendo il mio sguardo: il più vicino possibile a come io le avrei filmate. Questo perché il punto di vista che si sceglie è responsabilità etica di chi filma. Trattandosi di tante fonti diverse per qualità e provenienza (archivi storici, immagini dell’arte, altre filmate dai sopravvissuti stessi con i loro cellulari, altre prese dal web, spesso sfuocate, confuse) si è trattato di dar loro una coerenza anche estetica per farle dialogare con le immagini girate espressamente per il film. Volevo suggerire, evocare, quelle epopee.

La pittura assume un ruolo essenziale.
La pittura, in fondo, è narrazione per immagini, prima del realismo della fotografia e poi della cinematografia. Quelle della pittura le penso come immagini d’archivio, in un certo senso. Eppure, e soprattutto, la pittura – come l’arte in genere – racconta diversamente, si esprime tra narrativa e finzione, tra storia, documentazione e immaginazione, tra memoria e immaginazione di chi racconta, e viceversa. Mi interessa la sua possibile a-temporalità, l’esistere nella reminiscenza, nella metafora, nel mito, nella leggenda. Nel film tempi e luoghi si intrecciano, episodi rimandano l’uno all’altro. Per esempio, le onde del mare dialogano con il naufragio della nave degli schiavi del dipinto di William Turner.

Facciamo un ampio passo indietro. Nel 1989 esordisce con «La mina». Da allora, l’emigrazione sarà al centro di molti suoi lavori. E ne La mina l’emigrazione viene anche paragonata all’esilio.
L’emigrazione fa parte del mio Dna. È una delle mie identità, una delle «parti» alle quali appartengo, per caso e poi per scelta. Per fedeltà, potrei dire. Per quanto io risalga indietro nella storia familiare c’è sempre stato del movimento, dell’andare e qualche volta del tornare. Io stessa, dal Belgio all’Italia, senza più sapere quale sia l’andata e quale il ritorno – e da dove. Che cos’è per me l’emigrazione? Una domanda che, sotterranea o più frontale, percorre i miei film. Un lavoro di memoria. Sulla memoria. Che concerne la mia storia personale e che si dilata a una storia collettiva, intimamente legate. Per quanto riguarda l’esilio… Io sono sempre potuta tornare e ripartire. L’esilio è altro. Ricorderò sempre le parole di una donna curda fuggita dalla Turchia dove era stata imprigionata e torturata. Clandestina in Belgio, aveva saputo che la madre stava morendo, ma lei non poteva ritornare, avrebbe messo a rischio la propria vita e quella dei figli. Stava testimoniando per un documentario che un’associazione di avvocati che difendeva i richiedenti asilo mi aveva chiesto di realizzare. Era il 1993. Ecco, bisogna raccontare, trasporre queste memorie, tenerle strette, contro la sparizione e il pericolo dell’indifferenza.

Che ruolo hanno avuto i fratelli Dardenne nel suo cinema?
Il produttore Jean-Paul Tréfois, dopo avere letto la sceneggiatura de La Mina, decise di produrre il film, dato che c’era un solo film sull’emigrazione italiana nelle miniere del Belgio, il magnifico Già vola il fiore magro di Paul Meyer, e contattò i Dardenne come produttori principali. In seguito, mi hanno prodotto altri due film: Do You Remember Revolution e La vie autrement.

Quando ha iniziato a fare cinema che riferimenti filmici aveva?
Frequentando il Dams di Bologna all’inizio degli anni Settanta scoprii il cinema d’autore, quasi sempre al maschile. I miei gusti erano e sono eterogenei. Mi «incantano» le narrazioni che usano una certa letterarietà, la voce off, le voci off corali, le lettere, i diari. I film di Huillet-Straub, Alain Cavalier, Jonas Mekas, Pedro Costa… E poi il cinema – e che cinema – al femminile, autrici come Chantal Akerman, il cui Je tu il elle mi sconvolse per la libertà di tono, e Marguerite Duras, sul cui rapporto tra cinema e letteratura scrissi la mia tesi. Fondamentale è stato anche l’incontro con il cinema sperimentale e poi, negli anni Ottanta, con la video-arte: tantissime opere che ponevano al centro radicali manipolazioni sulle immagini d’archivio.

Come si pone nei confronti delle piattaforme digitali?
Dipende da quali piattaforme, secondo me. Vi si scoprono dei film altrimenti introvabili anche se non ne sono entusiasta. Eppure sarà questione di abitudine. E comunque meglio un film proposto in streaming che un film che sparisce nel nulla.

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