Editoriale

L’Opera da tre soldi e due bacchette

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Il caso Cosa succede nel grande stabile romano dopo la decisione choc del Cda. Una mala gestione durata troppo tempo

Pubblicato circa 10 anni faEdizione del 4 ottobre 2014

Non è certo «l’arpa d’or dei fatidici vati», quanto qualcosa «come un colpo di cannone,/ un tremuoto, un temporale/ un tumulto generale, / che fa l’aria rimbombar». La notizia che un sindaco e un’amministrazione «di sinistra» licenzino l’intero organico orchestrale di un teatro modesto, ma che è pur sempre l’asilo lirico della capitale, è una vera bomba, un tremuoto, di diritti e di valori.

Che scopre molti mascheramenti del job acts renziano, e dà il corpo fisico di una intera grande orchestra al mitico 18 dell’omonimo articolo dello statuto dei lavoratori. Ma questi sono solo impressioni e fantasmi, che ancora dopo molte ore continua a suscitare l’annuncio dei licenziamenti del sindaco Marino e del sovrintendente Fuortes, che pure è il miglior manager culturale di cui disponiamo. La situazione dei teatri lirici (e purtroppo non solo di quelli) è maledettamente complessa, incancrenita in stratificazioni di privilegi e ingiustizie, che solo a scoprirne un lembo c’è da rimanere orripilati. Il teatro dell’opera romano è sempre stato un feudo della destra, dove le assunzioni sono spesso avvenute, lungo i decenni, ad personam.

Tutti ricordano come il sindaco Alemanno, che pure ha lasciato andare a scatafascio diversi compiti istituzionali del comune, abbia sanato premurosamente il deficit spaventoso di quel teatro con decine di milioni di euro di contributo. E i conti, si sa, prima o poi riemergono. L’arrivo del sovrintendente Fuortes ha innescato a Roma una protesta immediata. Forse perché ha fatto diventare il Parco della musica dell’Auditorium il miglior luogo di spettacoli di Roma, e a Bari in pochi anni ha costretto gli assunti «a chiamata individuale» a sottoporsi a pubblici concorsi per il Petruzzelli. Lotta capeggiata dalla Cgil spettacolo, assieme agli autonomi. Che minacciavano, nonostante le casse vuote, di far saltare le prime da cui sarebbero pur entrati centinaia di migliaia di euro.

Rinunciando, con dignità d’artista, solo quando si venne a sapere che sarebbero stati sostituiti da musiche registrate… Ora il bubbone è scoppiato, in maniera incontrollabile, dopo la dipartita sdegnata del «direttore più bravo del mondo», come tutti si affrettano a definire Riccardo Muti, in una tradizione che ha molti precedenti nella lirica da tre secoli a questa parte, ma che oggi sembra scritta con livida crudeltà da Thomas Bernhard. Speriamo tutti che invece si trovi un accordo, ragionevole e garantista. Ma al di là del caso dei professori d’orchestra del Costanzi, sarebbe il caso che l’episodio desse l’avvio a una riconsiderazione generale dei modi e delle misure di lavoro (e di remunerazione) di tutto il settore dello spettacolo.

La cultura, poveretta, è stata amministrata in questi ultimi trent’anni non solo dagli stupefacenti e stupefatti ministri berlusconiani, ma anche da nomi importanti della sinistra, fino all’insipiente ministro Franceschini di oggi (che riconosce validità culturale e imprenditoriale solo al festival boutique di Ravello presieduto da Renato Brunetta). Ma nessuno si è mai posto il problema del pubblico da formare, dell’educazione musicale e teatrale assenti da ogni ordine e grado di scuola, di una tradizione (il famoso «patrimonio culturale» che tutti dicono di voler capitalizzare e spendere) che lo stato, come tutti i servizi pubblici primari, dovrebbe garantire e conservare. La modernità, e Craxi aveva visto lungo, pare fatta solo di nani e ballerine. Anche a sinistra. Come si fa a stupirsi o dolersi oggi che basti lo strattone di una bacchetta d’oro a far cadere un grande castello di carte, anzi di luci e lustrini?

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