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L’Onu e le droghe, è l’ora della svolta

Fuoriluogo La rubrica settimanale a cura di Fuoriluogo

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 11 marzo 2015

Nell’aprile 2016 si svolgerà a New York l’Assemblea Generale Onu sulle droghe (Ungass 2016), ma già questa settimana, alla riunione annuale della Commission on Narcotic Drugs (Cnd) cominceranno i preparativi.
Per comprendere il contesto in cui si svolgerà Ungass 2016, bisogna risalire alla precedente Ungass del 1998.

L’Assemblea Generale del 1998 segnò il culmine della retorica della «lotta alla droga»: con lo slogan: a drug free world, we can do it e con la Dichiarazione Politica finale che fissava come obiettivi la «eliminazione della coca, del papavero da oppio e della cannabis entro il 2008». La Dichiarazione Politica diede la spinta ad una nuova escalation della war on drugs: si vedano i famigerati Plan Colombia e Plan Dignidad del Cile, che hanno causato la militarizzazione dei territori e lo sfollamento forzato di migliaia e migliaia di contadini dai campi avvelenati dalle fumigazioni.

Inoltre, dalla fine degli anni novanta al 2006, esplode l’incarcerazione per reati di droga in Usa, la gran parte per semplice possesso. Nel 2009, alla Cnd che aveva il compito di valutare i risultati della strategia uscita da New York dieci anni prima, la Dichiarazione Politica, lungi dal prendere atto di aver fallito l’obiettivo di «eliminare le droghe», usò l’escamotage di rinnovarlo fino al 2019.

Ancora nella stessa Dichiarazione, il termine «riduzione del danno» fu censurato e sostituito dall’ambiguo termine «servizi di supporto»: tanto che sedici stati membri (per lo più europei, ma non solo) firmarono una dichiarazione a margine chiarendo che i «servizi di supporto» erano da tradursi in «misure di riduzione del danno». Questa semplice postilla segnava però un punto di svolta, decretando la fine dell’unanimismo.

Dalla seconda decade del 2000, si assiste ad una forte accelerazione nella riforma della politica delle droghe. Il regime internazionale è contestato apertamente nei paesi che più ne sopportano il peso: tanto che nel 2012, la risoluzione finale della Organizzazione degli Stati Americani (OAS), che raccoglie gli stati sia del Sud che del Nord America, nella riunione annuale di Cartagena, rilasciò una dichiarazione finale critica della war on drugs (vedi in questa rubrica Amira Armenta, 20/6/2012). E l’anno successivo la stessa OAS pubblicò un rapporto (Scenarios for the drug problem in the Americas 2013-2025) che invitava a valutare opzioni alternative alla proibizione.

Ancora più importante, forme alternative di regolamentazione delle droghe sono già in via di sperimentazione in varie parti del mondo.

La Bolivia ha legalizzato l’uso tradizionale della foglia di coca, riconfermando l’adesione alle Convenzioni con questa importante riserva.

Negli Usa, quattro stati hanno legalizzato la marijuana a scopo ricreativo: a questi, probabilmente si aggiungerà la California, il più importante fra gli stati, nei prossimi mesi. Ma il cambiamento è anche a livello di amministrazione, se è vero che Obama ha deciso di non far valere la competenza federale e ha lasciato autonomia alle sperimentazioni dei singoli stati.

Ancora, nel dicembre 2013, il parlamento uruguayano ha approvato la legalizzazione della cannabis.

In Europa, sulla base della decriminalizzazione del consumo personale nella gran parte dei paesi, si diffondono a macchia d’olio i Cannabis Social Club, dalla Spagna, al Belgio, alla Svizzera e altri.

Dunque il cambiamento c’è già, il problema è come si ripercuoterà a livello internazionale. Sarà un dibattito vero, dove finalmente si confronteranno opzioni diverse di politica delle droghe? Oppure prevarrà il conservatorismo degli stati che neppure vogliono sentire le parole «cambiamento» e «confronto»?

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