Marocco, Sudan, Turchia, Malesia, Indonesia: il mondo islamico è sceso in piazza ieri e nei giorni scorsi a difesa della Spianata delle Moschee e in solidarietà con i palestinesi che combattono i tentativi di modificare lo status quo nel terzo luogo sacro dell’Islam.

Diverse le forme di adesione: in Sudan cento moschee di Khartoum hanno deciso di dedicare i sermoni del venerdì alla Moschea di al-Aqsa, da decenni nel mirino della destra religiosa e nazionalista israeliana. A Istanbul, nel distretto di Beyazid ,migliaia di persone hanno marciato in solidarietà con il popolo palestinese.

Stesse immagini quelle che arrivavano da Amman, Giordania, e da Malesia e Indonesia: anche qui erano migliaia in piazza con bandiere palestinesi e cartelli che chiedono al mondo di tutelare al-Aqsa, «la più lontana», per la tradizione islamica la seconda moschea ad essere costruita.

In Sudafrica (paese che con il popolo palestinese condivide decenni di rapporti strettissimi, figli di una simile storia di segregazione e apartheid) le organizzazioni della società civile e le associazione islamiche hanno optato per il digiuno: ogni giovedì rifiuteranno il cibo «fino a quando al-Aqsa non sarà liberata».

Appoggio arriva anche dallo Yemen in guerra, dove il movimento ribelle Houthi – con un discorso pubblico del leader Sayyid Abdul-Malik Badreddin al-Houthi – si è detto pronto a unirsi nella lotta a Israele e ai tentativi di mettere sotto silenzio la resistenza palestinese mentre in migliaia scendevano per le strade di Sana’a.

Un elemento, quello delle piazze del mondo islamico, che Israele non può non ignorare: se le leadership, quelle arabe in primis a partire dal Golfo, hanno accantonato da decenni la questione palestinese, relegandola all’ultimo posto di un’agenda politica che anela alla normalizzazione dei rapporti con Tel Aviv, i popoli mantengono alta l’attenzione sull’occupazione della Palestina.

In netto contrasto con governi e regimi, le società e le opinioni pubbliche del mondo arabo e del mondo islamico considerano la questione palestinese centrale, lotta comune contro un progetto coloniale nel cuore del Medio Oriente.

Voci giungono, però, anche dall’Europa, preoccupata per le posizioni sempre più radicali del governo di destra del premier Netanyahu. Ieri la Francia ha mandato un chiaro messaggio a Israele, chiedendo di non modificare in alcun modo lo status quo della Spianata. Simile l’appello mosso dall’Alto rappresentante Ue Mogherini.

Appelli che, ad oggi, sono caduti nel vuoto: da tempo paesi del mondo arabo che intessono rapporti normali con Israele, come Turchia, Egitto e Giordania, tentano una mediazione impossibile per salvaguardare al-Aqsa.

Il timore comune è quello di una spartizione della Spianata, sul modello Hebron, che di certo provocherebbe reazioni ben al di fuori dei confini della Palestina storica. «Ogni restrizione ai musulmani che entrano ad al-Aqsa è inaccettabile», è il commento del presidente turco Erdogan. «Lo interpretiamo come un tentativo di modificarne lo status quo», ha aggiunto il suo portavoce.

Il ministero degli Esteri egiziano ha pubblicato un comunicato in cui chiede a Israele di interrompere subito «le violenze contro i palestinesi e i luoghi sacri e di non prendere misure che riducono le possibilità di raggiungere la pace».
Condanne anche dal Libano, dall’ufficio del presidente Aoun e dal quartier generale del movimento sciita Hezbollah. E arrivano dall’Arabia Saudita, ufficialmente «nemica» dello Stato ebraico ma in realtà partner commerciale e militare.

Ma giungono anche da Washington: la Casa Bianca nei giorni scorsi ha fatto appello «allo Stato di Israele e al regno di Giordania [custode della Spianata] perché riducano le tensioni e trovino una soluzione che garantisca la sicurezza e lo status quo».

Dietro le quinte funzionari dell’amministrazione Trump non hanno nascosto il fastidio per le provocazioni israeliane, che stanno cercando ufficiosamente di frenare.