Cultura

Lontano da sé, passeggiando nel villaggio degli sciamani

Lontano da sé, passeggiando nel villaggio degli sciamani

NARRAZIONI Il reportage narrativo di Maria Anna Mariani «Dalla Corea del Sud», per Exorma

Pubblicato quasi 7 anni faEdizione del 2 dicembre 2017

Spesso, quando ci si trova a tentare di descrivere come si vive in un paese asiatico, sembra manchino le parole. «Sembra» appunto, perché chi invece le trova e le sa dosare, riesce perfettamente a descrivere quell’equilibrio tra estraneità ed ebbrezza che caratterizza la vita di un occidentale in un paese dell’Asia. Maria Anna Mariani dopo aver conseguito il dottorato di ricerca all’Università di Siena si è trasferita in Corea del Sud dove ha vissuto per quattro anni insegnando italiano (oggi è docente di letteratura italiana a Chicago). Il suo reportage narrativo Dalla Corea del Sud. Tra neon e bandiere sciamaniche (Exorma, pp.168, euro 15) ha il tratto leggero tipico di quella sensazione di libertà dato dall’«esistere» in un posto totalmente lontano dai propri riferimenti culturali, e quella precisione che serve per descrivere anche lo stordimento emotivo, compresa la solitudine, che questo processo finisce per alimentare in modo continuo.

LA SUA VOCE è forte ma non autoreferenziale, perché deve accompagnare il lettore nell’attraversamento di sensazioni a tratti contraddittorie, ed è soave nel suggerire derive e sbandate, deviazioni e correzioni. «Non devo andare ogni giorno all’università: posso finalmente viaggiare – scrive Mariani – riprendermi il diritto allo sguardo. Così ieri ho inaugurato la libertà con una gita solitaria speciale: una visita a Inwangsan, il villaggio degli sciamani, alle porte di Seul». Il «diritto allo sguardo» ammanta ogni nuovo abitante europeo di una città asiatica, perché perfino quel «diritto» talvolta sembra ostruito dalla dura necessità dell’adattamento. Le gite, le passeggiate, tutto ciò che pare ordinario, diventano quindi un’ancora di salvezza nel mare di quanto c’è di straordinario.

MARIANI VIVE inoltre la sua condizione di osservatrice in un dormitorio universitario; insieme ad altri stranieri, altre bussole su cui specchiarsi e da cui provare a uscire e trovare una propria direzione. Le riflessioni scontate, le deduzioni facili, il sorriso ironico, sono tutti attraversamenti di questo spaesamento che Mariani tiene fermo in tutte le pagine del libro.

A QUESTO APPARENTE disagio, però, soccorre la scoperta e il necessario utilizzo di ogni strumento di ricamo possibile. Come ad esempio le parole: «Pogoscipoiò, tradotto alla lettera, diventa «voglio vederti» (così come cagoscipoiò è voglio andare, moccoscipoiò voglio mangiare, beugoscipoiò voglio imparare, hebocagoscipoiò voglio guarire). Il coreano non langue e non si strazia per la distanza, ma la ricuce con un’affermazione volitiva, energica: voglio vederti. Voglio vedervi. E voglio dirvelo, con parole prensili, proprio stasera. Pogoscipoiò».
Il libro è nato come una sorta di mail collettiva – l’idea all’autrice è stata suggerita proprio dalle mail che mandava a famiglia e amici – ed è rivolto a un «voi» che diventa appiglio e auto-invito ad affrontare anche la «noia spaesata»: «siate rapaci questa notte almeno», ci suggerisce Mariani.

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