Longley, il ricordo che si accende nel pericolo
Confrontarsi con la classicità dovrebbe allenare la mente all’inciampo, promuovere l’urto dei tempi raccordati da opportuno e singolare dialogo, e sostenere «la possibilità di una contraddizione che interviene a sospendere il “discorso” e gli automatismi del presente, scavando lo spazio di una parola dissonante», sostiene Davide Susanetti articolando il suo contributo a una democrazia contemporanea attraversata e in qualche modo scardinata dalla permanenza fantasmatica dei classici. Citando Benjamin, il grecista ricorda come il passato non si presenti nella forma di ciò che è accaduto ma in quel suo «impossessarsi del ricordo così come balena in un attimo di pericolo».
Due immagini che tratteggiano altrettanti punti di partenza per l’ascolto del più che sessantennale lavoro di Michael Longley, poeta nato e cresciuto a Belfast, di cui ora si stampa una bella antologia, Il maestro del lume di candela e altre poesie (Mondadori «Lo Specchio», pp. LIV-311, euro 22,00), curata da Piero Boitani e Paolo Febbraro, che firmano altresì le traduzioni (in gran parte di Febbraro, a dire il vero, e con esiti talvolta liberi che attengono alle scelte del poeta), con un intervento di Marco Sonzogni che sovrintende a sette traduzioni dell’ultima raccolta, The Slain Birds (2022), e che aveva già curato ‘Il passero solitario di Leopardi’ per una antologia di poeti irlandesi in dialogo col nostro recanatese.
Due punti di partenza: e cioè la parola dissonante – che ben si attaglia alla lingua originaria del poeta, con certe durezze caratteristiche di quella Musa gutturale, così chiamata dall’amico e competitor Seamus Heaney che ha spesso usato l’aggettivo per mettere in relazione i suoni dell’inglese dell’Irlanda del Nord e del gaelico con il mondo rurale sotteso che si slancia nella Storia – e, altro punto di partenza, il ricordo che si accende in un attimo di pericolo, quello stesso senso di precarietà che scorre nelle vene di ogni irlandese, perennemente in bilico e minacciato, sempre straniero e intimamente lacerato, ospite e ostaggio di una nazione che faticosamente si è traghettata nella modernità a colpi di rappresaglie, dove a soccombere sono stati i fratelli e dove il singolo ha dovuto prendere posizione a rischio della sua stessa vita fondando la propria identità tremante sulla scena insanguinata dei Troubles. Il poeta è dunque chiamato, più che altrove, a testimoniare, è chiamato alla sbarra per declinare le proprie generalità e segnalare il proprio credo.
Il massacro che separa i fratelli
La musa di Longley è la rivisitazione, scrive Febbraro nell’introduzione all’altra raccolta pubblicata in Italia da Elliot nel 2019, Angel Hill: «Longley ha sostituito l’originalità con l’originarietà. (…) La variazione (…) rende stabile la perdita. È il modo di questo lirico puro di essere epico; di riportare le storie alla Storia, tanto più generale quanto più anfrattuosa e collocata». Michael Longley conosce per via ereditaria gli orrori della guerra: il padre ne è stato segnato a vita e lui, insieme alla moglie Edna, influente critica letteraria, ha curato con commossa attenzione le parole di quei giovani War Poets che hanno fronteggiato la morte nelle trincee della Prima guerra mondiale (se ne possono oggi leggere i versi tradotti in una ben curata antologia di Paola Tonussi per le Edizioni Ares). L’esperienza della guerra rimane centrale in questo figlio d’Irlanda che sceglie di non abbandonare il bordo cruento dove il destino l’ha posto (ricordiamo invece l’esilio di Joyce e Beckett e la scelta di Heaney di westering, spostarsi a ovest per mantenere puro il suo verbo).
L’esperienza della guerra rimane centrale anche per comprendere il massacro che oppone il fratello al fratello e che coinvolge gli innocenti nei Troubles: «Pensa ai bambini / nascosti nelle bare. / Guardalo in faccia, il dolore. / Quei trent’anni chiamali / gli Anni del Disonore».
L’apertura alla classicità non è di secondaria importanza per Longley che, studente incostante al Trinity College di Dublino, dove l’insegnamento dell’omerista William Bedell Stanford e del latinista Donald Wormell ha poi dato i suoi frutti, si è fatto stregare da Omero trasformando «i poemi omerici, eminentemente narrativi, in immobili istantanee liriche», scrive Boitani nella ricca introduzione (peraltro già delineata in Vedere le cose. Il grande racconto della poesia d’Irlanda, Mondadori «Baobab» 2021).
Boitani continua: «Come poi accadrà alla poetessa inglese Alice Oswald con il suo Memorial, Longley ha incontrato la propria Musa in Omero. Omero lo educa alla realtà e alla percezione, alla bellezza e al conflitto, alla vastità che pochi come i poemi omerici possiedono». E grazie a Omero, Longley impara a ricomporre l’esperienza del dolore, a farla passare dal setaccio della riscrittura atta a offrire al poeta «l’immagine della resistenza e della endurance della poesia» (ancora Boitani). Allora, la morte del fratello gemello, raccontata nella raccolta The Stairwell (2014),si fa distillata e ancor più dirompente grazie alla mediazione dalle vicende mitiche.
Scardinare l’approccio intimistico
Ricordiamo come nell’Iliade Coone, accecato alla vista del cadavere del fratello Ifidamante, va incontro a improcrastinabile morte per mano di Agamennone perché non sa differire lo strazio. Longley, ponendo il lutto su un altro piano, lo fa scorrere nelle vene della memoria collettiva e dunque scardina l’approccio intimistico che ne dà ad esempio, in Nox, la poetessa canadese Anne Carson (la quale peraltro non disdegna, da classicista, l’intrusione delle opere dell’antichità greca). Nel caso della Carson si avverte un dolore nero che desertifica la mente e il cuore e va in cerca di qualsiasi residuo o sedimento, mentre in Longley l’ibernazione consentita dal procedimento mitico va a innervare e informare il presente garantendogli continuità nel tempo: è la durata dell’archetipo.
Omero permette cioè una sorta di distillazione, la compie nella possibilità di un riconoscimento (così nelle liriche omeriche di Gorse Fires, 1991), ma agevola anche l’accostamento degli spazi che scorrono l’uno sull’altro nel travaso dalla Grecia all’amatissima Irlanda (soprattutto quella occidentale). Si goda allora dell’ampiezza, della luce che sospende il fiato in ‘The Campfires’ (The Ghost Orchid, 1995), dove i fuochi crepitanti che si accendono davanti alla piana di Troia, ricordati come stelle che fan corolla alla luna illimpidendo il mondo, fanno balenare «le cime dei colli, le valli, i promontori e le punte / come Tonakeera e Allaran dove la marea / volge verso Killary, dove i salmoni lasciano il mare».
Cantore della guerra e della pace, Longley è anche e soprattutto poeta d’amore che alla moglie dedica molte poesie, come quella in occasione dell’anniversario di cinquant’anni in Angel Hill (2017): «Abbiamo seguito le orme della lontra verso Allaran / e atteso per ore sul nostro gelido trono, / per cinquant’anni, marito e moglie, contando / beccacce e piovanelli a voce bassa»; ma toccante è anche la poesia ‘The Ring’ dove il regalo per le nozze d’oro della moglie –un anello appartenuto a un soldato inglese nelle trincee, che reca incise le iniziali dei due sposi – unisce anche lui e Edna che così prendono «in prestito il loro amore a diciotto carati»; anello che egli porterà fino alla morte. Longley non dimentica di includere tra le sue cure la poesia, che diviene saggezza, concisione, quintessenza vitale: «Recuperare gusci di lumaca e piume di gazza / per paura di perdere un particolare / mi lascia poco spazio per la filosofia. / La poesia si sta riducendo quasi all’osso», scrive. Per quante indagini si possano compiere in quei territori, insegna Longley, la parola dissonante della poesia ci sorpasserà sempre aprendo un varco al mistero che ci attraversa dal tempo delle origini: quello dell’uomo che abita uno spazio ed è abitato dal linguaggio.
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