Secondo sondaggi, Afd, il partito xenofobo e ultranazionalista tedesco, viaggerebbe verso il 19 per cento dei consensi accingendosi a tallonare il partito socialdemocratico. Il fenomeno si inscrive nella generale affermazione dell’estrema destra in tutta Europa, ma in questo caso nel paese che più di ogni altro si era dato un confine invalicabile in quella direzione.

Il dilagare delle destre nel Vecchio continente, dalla Scandinavia ai paesi mediterranei, da est a ovest, e anche nel suo centro franco-tedesco, è talmente nitido e macroscopico da rendere del tutto insufficienti, se non oziose, osservazioni e schermaglie sulle mancanze, gli errori, i vizi e le divisioni di questa o quella sinistra nazionale, che avrebbero contribuito a favorire una così temibile deriva. Non si tratta ovviamente di cercare alibi, ma vista l’eterogeneità dei contesti in cui la destra estrema si afferma più o meno decisamente ovunque non ci si può esimere dall’interrogarsi sulle radici e gli elementi comuni. Laddove le divisioni e i conflitti nel campo delle sinistre sono più una conseguenza che una causa di questa espansione a destra. Cosicché la loro unità non costituirebbe una soluzione complessiva del problema, per quanto molti continuino a sperarci.

Neanche ci si può accontentare di rievocare genericamente l’indiscusso trionfo del neoliberismo e la sconfitta storica del movimento operaio tra gli anni ’80 e ’90 del secolo scorso che hanno comunque ridimensionato fortemente la forza contrattuale delle organizzazioni operaie, le aspirazioni e l’autonomia di pensiero delle socialdemocrazie. Si può tuttavia azzardare qualche ipotesi sugli ulteriori fattori intervenuti nell’ alimentare l’onda reazionaria.

Di certo si è indebolita e offuscata la memoria antifascista, non tanto sul piano della rievocazione celebrativa, quanto nella sua efficacia politica come antidoto alle ridefinizioni autoritarie e gerarchiche dei sistemi politici. Nonché alla interpretazione della democrazia come una scelta di affidamento al riparo da ogni manifestazione di conflittualità. Un culto della stabilità politica che, del resto, non appartiene alla sola destra. Senza questo offuscamento il riarmo della Germania sarebbe stato impensabile, così come una inclinazione antipacifista, che mira ben aldilà del caso estremo dell’aggressione russa all’Ucraina. Per più di mezzo secolo le destre imparentate a vario titolo, se non col fascismo nel suo insieme con molti dei suoi contenuti, sono state tenute a freno dal fatto che quei regimi avevano perduto la seconda guerra mondiale, con l’eccezione di Spagna e Portogallo che, non avendola combattuta non l’avevano neanche persa e si godevano beatamente le rispettive dittature.

In seguito la censura si sarebbe spostata sugli sconfitti della guerra fredda, ai quali vennero forzatamente assimilate le politiche socialdemocratiche e keynesiane nonché le organizzazioni del movimento operaio. Le quali, pur di evidente natura democratica, quando non si convertivano del tutto al neoliberismo, restavano ancorate a una visione acritica, e nei casi peggiori apologetica, del ruolo dello stato e del lavoro salariato. Finendo così travolte dalle trasformazioni del sistema produttivo e dalle loro implicazioni culturali. Il terreno perduto, lo si è visto nitidamente nell’Europa dell’est, è stato prontamente occupato dalle forze della “Reazione”, nel senso più letterale del termine, attraverso l’esercizio di una sorta di “autoritarismo caritatevole” fanaticamente atlantico. Così la crescita smisurata della diseguaglianza non si è affatto tradotta in una rinnovata spinta egualitaria. Ma nella rassegnata accettazione di un immutabile stato di fatto o nel risentimento, ovverosia nello stato d’animo che più di ogni altro si presta alla manipolazione politica, alla ricerca di capri espiatori e di un potere forte cui affidare il proprio riscatto.

Ma vi è un altro elemento più concreto e immediato che gonfia le vele della destra: la resistenza contro la transizione ecologica. In tutta Europa, dai Paesi bassi, alla Germania, alla Francia, soprattutto nelle province rurali, coltivatori e allevatori si mobilitano, invadendo le strade con i loro trattori e premiando formazioni populiste e antieuropee contro normative e restrizioni volute dalla Ue nel tentativo, attribuito soprattutto alla sinistra, di limitare l’impatto ambientale di colture e allevamenti intensivi. Fin troppo facile per le destre cavalcare resistenze corporative e pratiche produttive inquinanti che hanno ormai acquisito la forza della “tradizione”. In un insidioso, ma non incomprensibile interclassismo, il rifiuto della riconversione ecologica accomuna il possessore squattrinato di una vecchia auto diesel o di una stufa a carbone, agli interessi dell’industria chimica ed estrattiva e dei suoi azionisti, agli operai in ansia per il proprio posto di lavoro. In mancanza di compensazioni e alternative immediate, riversando i costi del cambiamento su cittadini già sufficientemente provati, l’Unione europea è destinata a implodere in una tempesta di pulsioni nazionaliste e reazionarie. Eppure anche su questo delicato terreno sembra prevalere la colpevolizzazione dei poveri “inquinatori”, mentre la ricerca delle soluzioni riguarda essenzialmente la tutela delle imprese e dei loro margini di profitto. O gli incentivi per modalità di consumo accessibili ai soli ceti privilegiati.

Questi passaggi riguardano tuttavia un processo storico essenzialmente europeo sempre più marginale nell’ambito di un assetto globale tutt’altro che tramontato per lasciare spazio al ritorno di stati nazionali pienamente sovrani. Un assetto che va piuttosto ridefinendosi con l’entrata in scena di nuovi attori globali segnati da storie e contraddizioni diverse e che non sembra destinato a riprodurre semplicemente ad altre latitudini i modelli egemonici del passato (quello britannico prima, quello americano poi). Dunque è questo più vasto scacchiere che converrà interrogare per venire a capo dell’impasse, altrimenti insuperabile, in cui si trova oggi il Vecchio continente.