L’onda di ritorno del cinema nipponico anni ottanta
Maboroshi È un po’ una tendenza del momento quella della riscoperta, talvolta distorta dalla lente della nostalgia del celebre decennio
Maboroshi È un po’ una tendenza del momento quella della riscoperta, talvolta distorta dalla lente della nostalgia del celebre decennio
È un po’ una tendenza del momento quella della riscoperta, talvolta distorta dalla lente della nostalgia, degli anni ottanta. Cinematograficamente parlando Spielberg con il suo Ready Player One e gli omaggi e le citazioni del decennio è solo la punta dell’iceberg del fenomeno. Dato per scontato che un decennio non è mai monolitico, ma solo un modo artificiale e comodo di definire un multiforme periodo che in realtà è caratterizzato da moltissime tendenze e da diversissime linee che lo attraversano, il cinema degli anni ottanta giapponesi meriterebbe comunque una riscoperta.
Considerato solitamente e non a torto come uno dei periodi più bui, «commerciali» e meno interessanti della settima arte nel Sol Levante, collocato fra il decennio precedente, esplosivo, vibrante e sperimentale da una parte, ed il nuovo cinema degli anni novanta dall’altra, in realtà è stato anche un periodo che ha visto la produzione di opere per niente banali e di notevole interesse. È impossibile in poche righe fare un’esaustiva analisi del cinema del tempo, però alcuni nomi ed il consolidarsi di alcune tendenze e generi aiuterà a farsi un’idea, speriamo, di cosa andare a cercare e vedere.
I grandi autori «classici» perseverano lungo la loro strada: Akira Kurosawa realizza uno dei suoi migliori film, il sontuoso Ran nel 1985, mentre Shohei Imamura ritorna alla ribalta internazionale nel 1983, dopo un periodo passato a girare documentari per la televisione nel sud est asiatico,con La ballata di Narayama, e sei anni dopo con Black Rain. Un altro ritorno, avvenuto dopo l’allontanamento forzato dalla Nikkatsu sul finire degli anni sessanta, è quello di Seijun Suzuki che nella prima metà degli anni ottanta realizza due capolavori di cinema delirante e surreale come Zigeunerweisen e Kagero-za, i primi due capitoli della cosiddetta trilogia Taisho.
Da non dimenticare poi la definitiva esplosione dell’animazione: gli anni ottanta sono il periodo della consacrazione di Hayao Miyazaki e dello Studio Ghibli, di Mamoru Oshii e naturalmente dell’uscita di Akira.
Ma coloro che forse più di tutti rappresentano il lato creativo degli anni ottanta del cinema nipponico sono Juzo Itami e Shinji Somai. Itami, che era stato attore fin dagli anni sessanta, debutta nel 1984 con The Funeral, commedia episodica con cui l’autore si prende gioco con sarcasmo delle antiche «tradizioni» giapponesi. Il film fu un successo di pubblico e critica, che si allargò ancor di più con Tampopo nell’anno seguente. Film culto dedicato al cibo e all’ossessione del cibo e dei suoi cerimoniali da parte dei giapponesi, Tampopo rimane tutt’oggi il film più conosciuto a livello nazionale ed internazionale di Itami.
Altro film simbolo degli anni ottanta giapponesi è Sailor Suit e Machine Gun diretto da Somai nel 1981: storia di una giovane studentessa che diventa capo di un gruppo di yakuza. Se narrativamente il film gioca molto con lo spettatore maschio sulla sessualità non mostrata ed acerba della protagonista, Hiroko Yakushimaru, stilisticamente è un trionfo di lunghi piani sequenza girati magistralmente e di una fotografia cristallina che mozza il fiato. Ma Somai, che purtroppo è ancora troppo poco conosciuto al di fuori dall’arcipelago, nel corso del decennio avrebbe realizzato altre opere magistrali. Citiamo almeno il capolavoro Typhoon Club del 1985: cinque giorni prima, durante e dopo un tifone in una scuola in cui di fatto i giovani protagonisti scoprono la bellezza e la violenza della vita. Sul finire del decennio sarebbero usciti Violent Cop di Takeshi Kitano e Tetsuo di Shin’ya Tsukamoto, ma questa e un’altra storia, quella del nuovo cinema nipponico degli anni novanta.
matteo.boscarol@gmail.com
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