Letters from a Black Widow. Strana e tremenda storia quella a cui fa riferimento il titolo del nuovo album di Judith Hill, talentuosissima musicista, compositrice e cantante, da lungo tempo sulla scena musicale con un curriculum da brividi, nonostante un’età ancora piuttosto giovane (40 anni). Figlia di una pianista giapponese e del bassista afroamericano Robert Lee «Pee Wee» Hill, già a fianco di Billy Preston e Thelma Houston, tra i tanti. I due si conoscono quando entrano nella band di Chester Thompson (batterista di Frank Zappa, Santana, Genesis). «Ero giovane quindi non mi rendevo conto di quanto fosse importante avere quei musicisti in giro per casa. Voglio dire, ora penso: “Quello era Billy Preston”». Judith cresce in un brodo primordiale di musica e già a quattro anni vanta – con tanto di credit – un brano composto da lei. Frequenta una scuola dove è l’unica bambina nera, subendo le classiche angherie: «Mi sono trovata davvero in difficoltà da piccola. Volevo solo degli amici. Volevo stare con le ragazze ma non potevo, venivo derisa per i miei capelli e il mio aspetto. È quella sensazione terribile quando suona la campana del pranzo e sai che andrai nel parco giochi da sola o presa in giro e sarà traumatico ogni giorno».
È solo nel 2007 all’età di 23 anni che incomincia a dedicarsi professionalmente al canto, dopo un diploma in composizione musicale, andando in tour in Francia con Michel Polnareff. Tornata negli States incomincia una strepitosa carriera da corista, al fianco di alcuni dei migliori nomi della scena pop rock soul internazionale, Stevie Wonder, Rod Stewart, Dave Stewart, Gregg Allman, Mike Oldfield, Carole King, Robbie Williams, George Benson, tra gli altri.

SALTO DI QUALITÀ
Nel 2009 il salto di qualità con Michael Jackson che la chiama a duettare con lui nel tour di This Is It (Judith compare nell’omonimo documentario). Prova per mesi ma il 25 giugno dello stesso anno Jacko muore e il tour è ovviamente cancellato. «La mia prima grande occasione è stata la triste cerimonia commemorativa per Michael. È stata anche una bellissima esperienza spirituale. Ma la prima volta che sono stata vista dal pubblico è stato quando ho cantato Man in the Mirror alla cerimonia. Michael è stato davvero di grande ispirazione, guardando come lavorava. È stato fantastico collaborare con lui». Nel 2013 si cimenta nella versione americana del contest The Voice. Le sue interpretazioni sembrano sbaragliare tutti ma viene clamorosamente eliminata, suscitando proteste e sconcerto. La carriera incomincia a prendere comunque una strada positiva, collabora con John Groban e apre il tour inglese di John Legend oltre ad altre situazioni minori.
Partecipa al docufilm 20 Feet from Stardom del 2013 (dedicato proprio ai coristi, coloro che accompagnano le stelle della musica ma non hanno mai l’opportunità di essere in primo piano). Vince però un Grammy Award per la migliore musica da film. Se la prima grande occasione con Michael Jackson era finita prima di incominciare, la sorte gliene presenta un’altra. Durante una trasmissione in onda su una tv europea, alla domanda con chi le sarebbe piaciuto collaborare risponde: Prince! Il grande musicista la vede casualmente, ne rimane impressionato e decide di contattarla e invitarla ai suoi studi Paisley Park e alla presentazione del suo album An Official Age. È lì che tra i due incomincia un’intensa storia artistica ma, pare, non solo: «Ci tenevo profondamente a lui. Mi ha detto che mi amava e che per me ci sarebbe sempre stato». Prince le propone di fargli sentire qualche suo brano, che apprezza e decide di produrre, intervenendo negli arrangiamenti e mettendo a disposizione il suo genio e la sua band. In tre settimane registrano il travolgente esordio di Judith Hill, Back in Time, ricco di elementi funk e con la mano di Prince che si sente spesso evidente ma che ha già in sé una grande dose di personalità.

ARRIVANO GLI HATER
Nell’aprile anche Prince muore, per overdose. Aveva già avuto una settimana prima un collasso mentre era in aereo proprio con Judith a fianco ed era stato «riportato in vita» a stento. Incomincia qui un incubo per la musicista (cantante, pianista, chitarrista, compositrice di tutte le sue canzoni). Gli hater si scatenano, le imputano la morte delle due grandi star, di portare sfortuna, le arrivano minacce di ogni tipo, anche di morte. Novella Mia Martini nippo-afroamericana. Lo stesso ambiente musicale la guarda spesso con sospetto e un briciolo di disprezzo. Quella «protetta» da due dei più grandi nomi nella storia della musica pop, ora se la deve cavare da sola. Ce la farà? «Ho lottato per riuscire davvero a sentire che ero in grado di essere sufficiente a me stessa o che la mia storia contava. Ho sempre pensato che il mio nome contasse solo perché era in relazione a qualcun altro».
La sua vita sprofonda in un baratro psicologico, continua a suonare e a pubblicare ottimi album, sempre all’insegna di un mix di black music, jazz, pop, suonati e cantati benissimo e dall’alto potenziale commerciale ma quell’«ombra scura» che la avvolge non se ne va (tutt’ora riceve messaggi anonimi di disprezzo e di accuse per la scomparsa dei due geni della musica). «Per molti anni non sapevo come sarebbe andata a finire. Magari ero seduta in un ristorante e improvvisamente passava in sottofondo una canzone di Prince e a quel punto la mia giornata finiva. Capitava in qualsiasi posto del mondo mi trovassi. È stato un periodo davvero molto duro».
Arriva ora il suo nuovo, quinto, album, un vero e proprio capolavoro in cui troviamo soul, funk, blues, gospel, jazz, sperimentazione, rock, elettronica, hip hop, con la sua voce spettacolare a tenere le fila. A tratti ricorda Macy Gray o Erikah Badu, a volte Prince e altre Sly and the Family Stone o perfino Aretha Franklin ma la personalità e l’ecletticità che sprigiona l’album sono uniche e originalissime. Come sottolineato, il titolo è un esplicito e doloroso richiamo alla sua tormentata vicenda: Letters from a Black Widow (Lettere da una Vedova Nera), dal soprannome che le è stato dato a seguito delle morti di Michael Jackson e Prince. L’album esprime tutta la frustrazione e il dramma di questa condizione, soprattutto nell’esplicita Black Widow, una ballata con voce e pianoforte protagonisti, come se uscisse da un lontano repertorio di Bessie Smith, Billie Holiday o Nina Simone, stessa forza dirompente, per poi trasformarsi in un rock pesante, duro e lacerante. Il coro la chiama «Vedova nera, vedova nera» e lei disperata risponde: «Ho costruito queste quattro mura per proteggermi dal mondo/O forse è il contrario/quello non è il mio nome/hey signore, non è il mio nome/hey sorella, non chiamarmi così/Io non sono una vedova nera, un cattivo presagio/Non ti ho fatto niente di male/Vedova nera non è il mio nome… Il mio crimine è l’esistenza, quindi ho mantenuto le distanze/Lontana, così lontana da tutti/come osi dirlo? Vedova Nera non è il mio nome/Vedova Nera, non hai cuore? Forse è vero, forse è vero/Non avvicinarti troppo, sono un cattivo juju/Sono maledetta perché sono stata morsa/Sono nera e mi è proibito». Un album tanto potente quanto amaro e drammatico che potrebbe chiudere un oscuro cerchio e avere il potere taumaturgico di una nuova (ennesima) rinascita. La donna Judith Hill e il suo smisurato talento la meriterebbero con tutto il cuore.