«L’ombra del fuoco», la resistenza dei luoghi tra dolore e desiderio di rinascita
Festival CinemAmbiente, si chiude stasera a Torino la 26a edizione, al centro la devastazione del nostro pianeta. Il film di Enrico Pau, in «Made in Italy», racconta l’Oristanese dopo gli incendi
Festival CinemAmbiente, si chiude stasera a Torino la 26a edizione, al centro la devastazione del nostro pianeta. Il film di Enrico Pau, in «Made in Italy», racconta l’Oristanese dopo gli incendi
Il corpo della natura dopo una terribile devastazione ambientale. Quella che colpì l’area del Montiferru nell’Oristanese nel luglio 2021 a seguito di un incendio. Terra, alberi, vegetazione si stagliano secchi, come architetture-sculture-scenografie sopravvissute che ri-compongono uno spazio che solo il tempo – anni, decenni e più – potrà/saprà in parte ri-stabilire in una nuova «origine». Attorno a questo fatto di cronaca si muove il nuovo film di Enrico Pau L’ombra del fuoco – S’umbra ‘e su fogu (presentato nella sezione «Made in Italy» di CinemAmbiente di Torino, diretto da Gaetano Capizzi e che terminerà questa sera al cinema Massimo con la cerimonia di premiazione della 26a edizione – ma fino al 18 giugno una selezione di film sarà visibile gratuitamente sulla piattaforma OpenDDB all’indirizzo www.festival.openddb.it/cinemambiente-2023/).
Dopo il magnifico esperimento ibrido concepito con Maria di Ísili, Pau conferma la sua ricerca «trasversale» nel cinema italiano che torna a manifestarsi fin dalle prime inquadrature di L’ombra del fuoco – S’umbra ‘e su fogu, risulatato di un anno di lavoro sul territorio con le persone che lo abitano e non lo abbandonano.
IL REGISTA sardo dà una visione «fantastica», sopra-naturale di un luogo e anche se il film è profondamente documentario, lo è liberamente, senza mai l’imposizione di un dettato. Ne esce un canto antico, un’osservazione soggettiva, muovendosi errante negli spazi, soffermandosi su dettagli, ascoltando gli uomini e una donna francese che vive in quella zona che raccontano il dolore e al tempo stesso la forza di una ri-nascita.
Inaugurato il 5 giugno, nella Giornata mondiale dell’ambiente, il festival ha offerto un vasto panorama per comporre una riflessione plurale sulle tante questioni ambientali aperte e urgenti, «tentando di guardare lontano, di individuare fenomeni ancora semisconosciuti e di anticipare temi destinati a entrare nel dibattito ambientale del futuro», scrive Capizzi nell’introduzione sul catalogo. Ecco dunque, nel concorso documentari internazionale, un’opera come Nomades du nucléaire, film di fine scuola dei tedeschi Kilian Armando Friedrich e Tizian Stromp Zargari, che porta in primo piano un soggetto insolito, ovvero il lavoro di persone specializzate nell’ispezione e manutenzione delle centrali nucleari francesi, sempre in viaggio in roulotte da un sito all’altro, trascorrendo anche mesi lontano da casa, esposte alla radioattività, ben pagate ma precarie, col rischio di non vedersi rinnovato il contratto. Senza mai mostrarli sui posti di lavoro, il film segue i tre uomini e la donna prescelti nei loro viaggi e soste, in una Francia lontana dalle città, fra solitudini, preoccupazioni, comunicazione a distanza con le famiglie. La «rivelazione» è data dai set dove convivono centrali, natura, strade, luoghi costeggiati e penetrati da uno sguardo che sa trasmettere inquietudine e un senso del pericolo sempre presente.
Spinge l’osservazione di un ambiente fin quasi all’astrazione l’austriaco Andreas Horvath che, dopo il suo primo film di finzione Lillian, è tornato al documentario con Zoo Lock Down girato nello zoo di Salisburgo forzatamente vuoto durante la chiusura dovuta alla pandemia nella primavera del 2020. Senza dialoghi (tranne le voci indistinte dei visitatori che alla fine riprendono a frequentare lo zoo), il film descrive la stasi nella quale si trovano gli animali e gli addetti ai lavori che si occupano di dare loro da mangiare.
FRA LE TANTE proposte del festival, va segnalata quella di Superottimisti, l’Archivio di film amatoriali di famiglia con base a Torino, a Nairobi, dove lo scorso dicembre ha realizzato un laboratorio sul linguaggio cinematografico e la valorizzazione creativa dei materiali d’archivio. Ne è scaturito il breve testo collettivo Shine Again nel quale si alternano immagini di home movies del passato e i volti odierni di giovani africani rifugiati in Kenya, e la testimonianza di una di loro, ruandese, costretti a lasciare le loro terre per i disastri causati dai cambiamenti climatici.
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