Con Luigi Maria Lombardi Satriani scompare uno degli ultimi rappresentanti di quella «svolta» dell’antropologia – o, come avrebbe preferito lui, demo-etno-antropologia – italiana del dopoguerra, costruita a partire anche dalle osservazioni di Gramsci, dalle ricerche di De Martino e dalla lezione di Carlo Levi, autori che con diversa pregnanza hanno abitato la sua visione del mondo e il modo di narrarla.

È palese l’eleganza e il nitore del fraseggio dell’antropologo calabrese. Anche quando scrive di cose che limpide non lo sono, come mostra tutta la sua produzione di antropologia giuridica, confluita inoltre in quell’impegno civile e politico – era stato senatore della Repubblica – nella Relazione sulla Camorra nella XIII Legislatura.

Una svolta che potremmo far iniziare con il suo precoce lavoro Folklore come cultura di contestazione, a sua volta contestato da chi ne volle leggere solo le implicazioni politiche o lo considerò come una sorta di incitamento a quella che da lì a poco sarebbe stata la contestazione studentesca del ’68. Eppure, lontano dalle polemiche, fu un interessantissimo esempio di dove potesse condurre un’indagine antropologica e di come i fatti folklorici appartenessero de jure alla cultura italiana, senza passatismi o attese messianiche.

FU IL PRIMO dei tanti lavori che Lombardi Satriani dedicò all’alterità italiana in un mondo, anche accademico, che ancora poteva definire – lo raccontò egli stesso – bifolkloristi coloro che si occupavano di bifolchi. Risibile definizione che comunque ci riporta al contesto culturale del giovane Satriani, un ambiente che ancora risentiva di quel freno interiore impresso dall’idealismo crociano nei confronti delle culture o subculture «altre», dalla appena trascorsa disavventura fascista, con i suoi corollari di chiusura e razzismo, e da quella forma di imbarazzo nazionale per quei dislivelli interni presenti nella cultura italiana, soprattutto al Sud.

Una postura innovativa appartenuta anche alle sue opere di antropologia storica. Trattando dell’atteggiamento mentale degli illuministi napoletani del ’700 nei riguardi della jettatura presenta, con il solito garbo che lo contraddistinse, una lettura diversa sia da quella che ne fece Croce, come cosa «a cui non si crede, e a cui si finisce quasi col credere per suggestione…», sia da quella di De Martino che nella credenza napoletana vedeva una sorta di «compromesso fra l’antica fascinazione e il razionalismo settecentesco». Satriani preferiva acutamente proporre la strada dell’anticipazione piuttosto che del ritardo culturale degli illuministi napoletani che per primi ipotizzarono, implicitamente, forse inconsapevolmente, il concetto tutto moderno di realtà culturale della magia.

Oltre ai suoi lavori innovativi, già menzionati da altri in questa stessa pagina, uno dei meriti – e non da poco – che dovrà sempre essergli riconosciuto, credo sia («il discorso antropologico… si pone di fatto come un’autobiografia», diceva spesso) la sua attività di divulgatore dell’antropologia, nelle sedi istituzionali come nei media e, soprattutto, con la creazione della collana Argonauti, per la casa editrice Meltemi. Uno strumento indispensabile che formerà praticamente tutta la generazione di antropologi di oggi, dando loro sia la possibilità di conoscere autori come Crapanzano, Clifford, Marcus, Fischer, Borofsky, sia di esprimersi a loro volta in una sede adeguata, pubblicando sotto la sua vigile direzione.

ORA LOMBARDI SATRIANI appartiene a quella morte cui ha dedicato uno dei suoi lavori più belli e più letti, Il ponte di San Giacomo, scritto con Mariano Meligrana, che quel ponte ha attraversato troppo presto. Piace pensare che, in un modo a noi sconosciuto, attraversato il comodo ponte, continueranno a parlare di infiniti mondi.