Alias Domenica

Loi, Milano meticcia; il friulano Giacomini; Franzin e i capannoni

Loi, Milano meticcia; il friulano Giacomini; Franzin e i capannoniGiuseppe Zigaina, «Assemblea di braccianti sul Cormor», 1952, Udine, Casa Cavazzini, Museo d’Arte Moderna e Contemporanea

Generazioni a confronto Franco Loi torna nella «bianca» Einaudi con «Stròlegh» (1975) e «Teater» (’78); Amedeo Giacomini, «A prezzo di parole», Quodlibet bilingue; Fabio Franzin (1963) da Ronzani: «Case, Presepi e altri ritrovi»

Pubblicato 6 mesi faEdizione del 7 aprile 2024

L’avventura della poesia dialettale dell’ultimo quarto di Novecento è stata impareggiabile. Due tra i principali artefici di quella stagione vengono ora ripubblicati. Franco Loi (Genova 1930 – Milano 2021) con Stròlegh, Teater (introduzione di Giancarlo Consonni, Einaudi «Collezione di poesia», pp. XIII-282, € 16,00), volume che comprende i libri editi nel 1975 e nel 1978.

L’effetto di rottura e novità che accompagnò l’uscita di Stròlegh fu enorme. Urgevano storia e attualità in versi allucinati, di sonorità, vicende e dialoghi, agitati da tumulti politici e sociali, da pensieri filosofici, nella parlata milanese còlta nella sua polifonica mescolanza con i dialetti dei meridionali nelle periferie della città meneghina. Una lingua meticcia che diceva di un mondo cittadino e operaio, proletario e antifascista, in cui il sermo merus, di mix tra linguaggi gergali (suburbio, dialoghi da bar e da strada, militanza) indica la mimesi di lingua letteraria a strati popolari e alla violenza della rappresentazione. Una poesia che non canta la piccola patria, né il rifugio regressivo, ma che si fa voce del cambiamento, della trasformazione della vita lavorativa e della nuova urbanizzazione, delle tensioni sociali e delle lotte. Un poema fiume tumultuoso e irrazionale in versi dilatati colmi di sollecitazioni. Il libro marca un solco nel segno di Dante, il volgarizzatore della lingua: narrativo, lirico, implicato di cultura politica e civile, popolare e dotto, epico ed etico, materialista, irrazionale e ’verticale’.

Con Stròlegh, l’autore fa della parlata milanese uno strumento congruo a dire la complessità del reale, imponendo scelte di campo ritmico-prosodiche e metrico-formali consapevoli delle trasformazioni e delle idealità, quali la lotta per la Liberazione dal nazi-fascismo e il Sessantotto: «Memoria di sperans, scenn ch’û sgüggiâ / da l’imbastígg di ur pers e specciâ, / la matta sbornia de la fantasia / de quela bamba ardent mia giuentü: / i bander russ, che sül Bisagn, a Zena, / vulen ne l’aria» («Memoria delle speranze, scene che ho scucito / dall’imbastirsi delle ore perdute e aspettate, / la matta sbornia della fantasia / di quella bamba ardente mia gioventù: / le bandiere rosse, che sul Bisagno, a Genova, / volano nell’aria»). Il libro pullula di incontri, personaggi, dialoghi politici e filosofici, evidenziando la complessità sovrastrutturale.

Teater, approfondisce e inscena siparietti, motivi e mondi abietti: gente di strada e prostitute ai margini della storia, flashback di rastrellamenti nazisti o l’episodio-emblema dei giustiziati a Piazzale Loreto nell’agosto del 1944. Miccia dei versi è la furia espressionista e visionaria che contrasta l’ingiustizia della storia nel teatro che è la Milano negletta e violenta. Versi magistrali di un passato recente che getta ombre e riverberazioni sul presente.

Amedeo Giacomini (Varmo 1939 – San Daniele del Friuli 2006), torna in libreria con A prezzo di parole (Quodlibet, pp. 259, € 22,00), introduzione del curatore della collana «Ardilut», Giorgio Agamben, in cui figurano testi di Presumût unviâr, Presunto inverno (1987), l’originale prosa L’arte dell’andar per uccelli con vischio (1969) (un manuale che è una sorta di allegoresi naturalistica) e gli inediti curati da Ivan Crico, con una nota di Matteo Vercesi.

Il volume ripropone una delle voci capitali della poesia. Edito a metà degli anni ottanta, Presumût unviâr, capolavoro in friulano, introduce ad atmosfere notturne e raggelate di una Stimmung, percezione dell’epoca tra riflusso, crollo delle idealità, rifugio intimista e sentimento (corale) della estenuata Dammerung (o sera occidentale) ormai finita in una notte silente e turbata: «Za al si piart intal cour / il ricuart dal sorêli. / Parsè? Sino sote il scurî? / A’ pol stâj. Dibot, ’ne gnot, / ’i podin jessi d’unviâr» («Già si perde nel cuore / il ricordo del sole. / Perché? Siamo verso il tramonto? / Può darsi. Tra poco, una notte, / potremmo essere d’inverno»). Un sentire condiviso, si pensi ai titoli di Remo Pagnanelli Atelier d’inverno (Montelliana, 1985) e Francesco Scarabicchi Il viale d’inverno (L’Obliquo, 1989): anni ottanta oltre gli stereotipi, rappresentati in poesia per quei motivi di straniamento e spaesamento, fuga nel ‘personale’ e istanze delusive del ‘politico’, senso fallimentare ed emarginazione, solitudine tra autoanalisi e autoesclusione. L’inverno presunto procede tra oscurità e neve: altro elemento centrale nella poesia dell’epoca, si pensi a Roberto Roversi, L’Italia sepolta sotto la neve (Il Girasole, 1989), per quel senso di annullamento o biancore che ha a che fare con la purezza di natura e con il velo che ammanta cose, paesaggio e consorzio umano, come un silenzio campale.

E tuttavia, Giacomini, tracciando bilanci dell’età matura, fissa il destino della scrittura in quel «registrare eventi» usando parole nette ed essenziali che «non ci lasciano scampo», che impongono un confronto tragico con la verità. Voce tra le più radicali e raffinate, che torna alla natura per averne in cambio chiavi di accesso alla comprensione delle cose, motivo di resistenza alla disumanizzazione in atto: «resisti / in chistu infiâr a présit di peràulis» («resistere / in quest’inferno a prezzo di parole»). Crico, nella nota al volume, storicizza l’esperienza giacominiana fissando la chiave di volta nell’anno 1976 segnato dal terremoto. La sezione degli inediti acuisce il significato dell’esistenza, l’attesa della neve, o della morte, come soluzione o pace. Giacomini ha espresso al massimo grado il senso della sconfitta storica e della perdita, cercando conforto nella natura, ma sempre umanizzandone grido e allarme (di stormi, di animali feriti e minacciati).

Fabio Franzin, nato a Milano nel 1963 da migranti del trevigiano, scrive nel dialetto di Motta di Livenza, paese in cui è tornato a lavorare e a vivere da decenni, che è ai confini con il Friuli. Di Franzin, Ronzani Editore pubblica Case, Presepi e altri ritrovi (pp. 166, € 14,00). Poeta di natura e di paesaggio, secondo la lezione cara a Pasolini, Zanzotto e Giacomini, egli è anche poeta operaio, avendo lavorato in fabbrica per oltre un quarantennio e scritto Fabrica (Atelier, 2009) e Co’e man monche (Con le mani mozzate) (Le voci della luna, 2011), libri in cui affronta questioni lavorative come la produzione, la catena di montaggio, i rapporti all’interno del mondo del lavoro, la recessione, la precarietà e la fine del lavoro.

In questi decenni Franzin è la voce versatile e prolifica (numerose le raccolte di poesia all’attivo) che, in presa diretta, meglio ha indagato sulle trasformazioni sociali e antropologiche, paesaggistiche e morali. Partendo sempre dal dato esistenziale o dal vissuto (inevitabile l’accostamento alla voce operaia di Luigi Di Ruscio), egli proietta destino personale a urgenze sociali, collettive, di categoria o parte, ma anche ambientali o di ecosistema, in ideale continuità con Loi e Giacomini. Questo nuovo libro, introdotto da Alessandro Scarsella e ospitato nella collana di Matteo Vercesi, è più che altro legato alla nuova stagione: è infatti possibile leggere in retrospettiva i libri dell’autore come parti di un’esperienza in atto, o nel suo continuo svolgersi: un diario o affresco dei nostri anni. Dentro e fuori la fabbrica, dentro e fuori le mura domestiche, dentro i rapporti di coppia e nel paesaggio devastato dai capannoni e dal cemento, dentro ponti lanciati tra ‘noi’ e ‘loro’, residenti e migranti, cittadini UE ed extracomunitari, tra popolazioni brasiliane e venete (memori e immemori dei propri trascorsi): «Ma pì de tut chee / barache, che ’ncora esiste, qua, / tel cantón dei orti, (…) a farne fradhèi / anca lontàn mieèri chiòmtri. // Da quee ’rivén. Te quee sen, sarén» («Ma soprattutto / quelle baracche che ancora esistono, qui, / nei cantoni degli orti (…) a renderci fratelli / anche a distanza di migliaia di chilometri. // Da quelle arriviamo. In quelle siamo, saremo»).

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento