L’odore, per piacere
Intervista Parla il profumiere francese di origine armena Francis Kurkdjian, l’ispirato creatore di installazioni olfattive che da giovanissimo ha conosciuto il successo con i più grandi creatori di moda
Intervista Parla il profumiere francese di origine armena Francis Kurkdjian, l’ispirato creatore di installazioni olfattive che da giovanissimo ha conosciuto il successo con i più grandi creatori di moda
Le bolle di sapone profumate alla pera, alla menta e alla viola fanno parte delle creazioni olfattive di Francis Kurkdjian (Parigi 1969) che giovanissimo ha raggiunto il successo con il profumo Le Mâle (1995) per Jean-Paul Gaultier. Nella cornice romana di Villa Medici, dove è stato protagonista dell’incontro Profumo, scultura dell’invisibile per il ciclo «I Giovedì della Villa» (ideati dalla direttrice Muriel Mayette-Holtz) il profumiere – già ballerino all’Opéra de Paris – ha raccontato il suo percorso. «La chiave di tutta la mia storia di profumiere è qui», ha affermato cercando online l’incisione tardo seicentesca di Nicolas de Larmessin, ironico interprete dei mestieri alla corte di Luigi IV. Habit de parfumeur è la sintesi iconografica di tutti gli ingredienti usati all’epoca (importati in Francia da Caterina de’ Medici), che ancora oggi sono alla base di quest’arte.
La tua famiglia è di origine armena. In che modo la memoria ha influenzato il tuo lavoro?
Ciò che proviene dalle mie origini armene fa parte del mio essere, non del mio universo creativo ed estetico. Il fatto, però, di essere armeno mi ha portato ad accettare le differenze e ad integrarmi, soprattutto quando ho iniziato a lavorare. Quando si deve creare per qualcun altro c’è un doppio gioco che è simile a quello che fa un danzatore, che rimane se stesso ma diventa altri personaggi. Anche quando si indossa un vestito si è sempre se stessi, ma in più c’è la personalità del vestito. Questa duplicità la ritrovavo a casa: all’esterno ero francese, ma all’interno armeno.
Quali sono state le maggiori difficoltà che hai dovuto affrontare nel relazionarti a committenti come Gaultier, Dior, Guerlain, Lanvin, Ferragamo?
Quello che conta è l’ispirazione. Bisogna lavorare per avere l’ispirazione, non è soltanto un processo naturale, ma lo si deve fare con gioia. Essendo stato ballerino per vent’anni so che la danza è la vera scuola della difficoltà e della sofferenza. Nella creazione del profumo le difficoltà sono soprattutto nella relazione con gli altri, perché molti creatori di moda devono produrre profumi diversi per affermare la loro unicità, ma non amano per niente il profumo. Ecco, doversi relazionare a qualcuno che non ama il senso olfattivo è veramente difficile!
Nel processo della creazione olfattiva qual è la percentuale di lavoro sperimentale (quasi alchemico) e l’istintività dell’ispirazione?
Il lavoro di equilibrio e precisione appartiene a tutti i mestieri artistici. Ma non sono un chimico, la materia prima è il punto d’arrivo. Non vado mai in laboratorio, che è un universo a sé come lo è la cucina. Piuttosto, creo delle ricette partendo dalla loro immaginazione, poi mando la formula al mio laboratorio di Parigi. In occasione dell’incontro a Villa Medici ho creato ho creato tre profumi – Eau de Médicis, Fleur de Médicis e Chypre de Médicis – di cui, per la prima volta, mostrerò al pubblico le ricette, donandogli le formule. Ci sono ingredienti conosciuti come bergamotto, mandarino, gelsomino, insieme ad altri composti tra cui l’hedione (aldeide dal profumo di gelsomino e magnolia) e l’ambroxan (composto organico sintetico appartenente alla classe di ossido tetranorlabdane). Gli ingredienti che vengono assemblati in laboratorio sono gli stessi, cambiano solo le proporzioni. Diversamente dal cuoco che deve unire tutti gli ingredienti da sé, per un profumiere la sua presenza è indifferente. Quanto all’alchimia, per me nasce dall’intuizione e questa esiste in base all’esperienza. Due sono i momenti migliori, quando si è giovani e non si ha alcuna esperienza o quando si è già sperimentato molto e l’intuizione permette di lavorare con un gesto più sicuro. Il periodo difficile è tra queste due fasce d’intuizione.
Tra le tue installazioni olfattive c’è quella dedicata a Maria Antonietta a Versailles, nonché la fragranza M.A. Sillage de la Reine…
Questo progetto nasce dal mio desiderio di approfondire la conoscenza del mestiere del profumiere. La visione storica è importante, perché conoscere il passato permette di vivere il presente e costruire più serenamente il futuro. Mi interessava Versailles perché è lì che si è sviluppata l’arte profumiera. La corte era una grande consumatrice di profumi e durante i quasi due secoli di monarchia divenne il centro più importante d’Europa. Versailles e il profumo hanno avuto una forte relazione, soprattutto grazie a personaggi come Madame de Pompadour, Maria Antonietta e Luigi XV. L’ho visto, perciò, come un campo da gioco in cui potermi esprimere. Non si trattava di creare dal nulla, ma di un tentativo di ricomporre un profumo che avrebbe potuto appartenere a quell’epoca. Mi ha colpito molto, poi, che Luigi XIV facesse mettere il profumo anche nelle fontane dei giardini di Versailles per avere un’atmosfera olfattiva molto ricca.
Hai collaborato anche con Sophie Calle creando «L’Odeur de l’argent» (2003)…
Non avevo mai approcciato un soggetto del genere ed era anche la prima che qualcuno mi desse completa libertà. Faceva parte di un progetto artistico molto più ampio in cui Sophie Calle analizzava il rapporto della società con i soldi. Sono partito dalle espressioni usate in Francia intorno al concetto dei soldi, ad esempio «lavare i soldi» o «ripulirli» parlando di riciclaggio, come pure «i soldi non hanno odore», mettendole a confronto con la mia esperienza personale. Ripensai al periodo in cui avevo vissuto a New York, tra il 1995 e il 1999. Lì il rapporto con i soldi è molto diverso. I dollari hanno anche un odore specifico, perché sono stampati su una carta e con inchiostri diversi da quelli delle banconote europee, circolano tanto e, passando nelle mani della gente, hanno sempre un carattere un po’ grasso, sporco, quasi animale.
Accennavi al rapporto con la cucina. Ti piace cucinare?
Sì, mi piace inventare ricette. Ho imparato a cucinare quando stavo a New York, perché lì i ristoranti sono terribilmente rumorosi e poi servono sempre gli stessi piatti con un po’ di «marketing» per far credere che siano diversi. Mia madre mi spedì un libro di cucina francese molto tradizionale, La cuisine pour tous di Ginette Mathiot. Sono partito da quelle ricette, ma poi ho cominciato ad alterarle, un po’ come faccio con profumi e odori, anche se non ho certamente lo stesso talento di Anne-Sophie Pic o di altri giovani chef come Cristophe Michalak o Akrame Benallal, a cui sono molto vicino e che, come me, hanno la volontà di fare bene il loro mestiere creativo togliendo, però, un po’ del dramma che c’è intorno e rendendolo meno istituzionale, diversamente da grandi cuochi come Ducasse… In cucina la qualità degli ingredienti è fondamentale molto più che nelle altre arti, soprattutto se si parla di semplicità. In profumeria la ricerca è analoga, ma il tocco finale è affidato all’emozione.
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