Cultura

L’odore buono della lavanderia

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Narrativa Lorenzo Marone e il suo romanzo per Longanesi, «La tentazione di essere felici», un cinico elogio dell'eroismo quotidiano

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 2 aprile 2015

Corre un solo rischio questo romanzo di Lorenzo Marone La tentazione di essere felici (Longanesi, pp. 272, euro 14,90): quello di essere accomunato alla «letteratura italiana» di oggi (i termini sono virgolettati per mimare lo stesso senso in cui Nanni Moretti in Caro Diario prende in giro il «cinema italiano»). Una letteratura che nasconde il suo vuoto (artistico) dentro un linguaggio finto quanto più è «realistico», eternamente alla ricerca del consenso. Una palude di conformismo (artistico) da cui sembra difficile uscire. A meno che non si imbocchi una strada diversa, perlomeno aliena dal desiderio di piacere o compiacere un pubblico che si immagina, in tutte le sue manifestazioni sia tragiche che comiche, eternamente infantile cioè eternamente televisivo.

Con quest’opera, Lorenzo Marone, che ha già al suo attivo una raccolta di racconti e un precedente romanzo, consegna al lettore il suo «lungo addio» chandleriano a una Napoli senza cliché e quindi senza miti, città tra le altre: «Napoli all’alba appare austera ed elegante. Le strade sgombre, le auto in sosta che giacciono silenziose con la brina sui vetri, il verso di qualche gabbiano in lontananza, il rumore assordante di una saracinesca che si alza, il profumo di brioche che si dipana dai vicoli, il tintinnio delle tazzine di caffè che proviene dai pochi bar già aperti. Non si sentono voci, schiamazzi, risa, e quei pochi esseri umani che vagano per le vie sembrano rispettare la solennità del momento».

Cesare Annunziata è un anziano signore di 77 anni, pensionato, un rompiscatole se non cinico, che passa il suo tempo diviso tra qualche rapporto d’amore (forse) mercenario, i rimbrotti della figlia e l’affettuosità del figlio (gay), tra un vicino di pianerottolo cadente e a cui non vorrebbe assomigliare e una anziana signora trasandata, raccoglitrice di gatti. Tutto scorre in questo tran tran dove il protagonista, già infartuato, cerca di difendersi come può (come sa, o meglio, non sa fare).

Fino a quando un’altra vicina di pianerottolo, moglie di un marito manesco fino alla violenza estrema, non catapulta il Nostro in un mondo dove è difficile farsi i fatti propri, veramente arduo essere indifferenti e cininci. Sullo sfondo, sventolano i problemi eternamente non risolti con la famiglia d’origine e i figli. Da una serie di vicissitudini, ne uscirà un protagonista più consapevole, aperto alla relazione con l’altro da sé, pronto a riconoscere l’unicità di ognuno e la sua insostituibilità. Un uomo che non perde l’ironia: lo dimostrerà quando sarà alle prese con il nuovo infarto, parlando del «suo vecchio amico laggiù» (il pene) a cui ormai non resta che la pensione. Che si lascia andare a una lunga preghiera laica, degna dei racconti di Hemingway, in cui, nella sala operatoria, elenca a se stesso in trance tutte le cose che gli procurano piacere e a cui non intende rinunciare: «Mi piace il profumo di cucinato che arriva da una finestra aperta, i luoghi familiari e l’odore delle lavanderie, mi piacciono le guance rosse e il tremore della voce, mi piace l’odore dei bambini appena nati, l’odore di sterco in un campo bagnato, mi piace la città che dorme, il profumo dei capelli delle donne, mi piace quando un ricordo mi viene a trovare.
È così che Cesare Annunziata, in quella semplice litania della quotidianità, diventa l’eroe dei nostri terribili tempi di passaggio.

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