Visioni

L’Odissea rock’n’roll di Little Steven

L’Odissea rock’n’roll di Little StevenLittle Steven – foto di Heidi Gutman

Incontri «Memoir» è l’autobiografia dell’artista americano: una carriera spesa fra musica, cinema e televisione. Gli anni con Springsteen, l’addio alla band e il ruolo ne «I Soprano», protagonista in «Lillyhammer»

Pubblicato quasi 3 anni faEdizione del 21 novembre 2021
Luca CeladaLOS ANGELES

Alla soglia dei 70 anni, Steven Van Zandt alias Little Steven, al secolo Steven Lento assume di diritto il mantello di patriarca del Rock. In virtù della militanza nella E Street Band di Bruce Springsteen compare e amico del Jersey Shore (lui Middletown, Bruce Asbury Park) ma anche «testimone oculare», come afferma, dell’intera storia del rock (tranne il primo decennio – i ’50, in cui il piccolo Stevie Lento era uno dei tanti bambini italoamericani del New Jersey: padre calabrese e mamma napoletana.) Finirà per assumere il nome olandese del secondo marito di quest’ultima ma gli rimarrà sempre attaccata l’anima italian-american assorbita dai nonni e dagli zii, come l’attaccamento ai compagni del quartiere con cui comincia a suonare in garage band dopo la folgorazione: i Beatles, visti da adolescente suonare nel varietà televisivo di Ed Sullivan. «Fu come vedere atterrare una astronave a Central Park» scrive in Memoir, l’autobiografia ora edita da Mondadori. È solo uno dei ricordi che costellano il libro col sottotitolo di «la mia odissea, fra rock e passioni non corrisposte», che ripercorre le tappe di una vita di un musicista «trasversale», membro ad honorem della band di Springsteen ma anche solista, autore di sceneggiature, attivista (promotore della campagna dei musicisti contro l’apartheid negli anni 80) e non ultimo attore come ben sanno i fan de I Soprano e di Silvio Dante, il circospetto consigliere del boss Tony, da lui creato per il serial di David Chase. In seguito interpreterà due stagioni di Lillyhammer di cui è stato anche creatore, co-sceneggiatore, produttore e autore delle musiche. Lo incontriamo via zoom dall’appartamento del Greenwich Village e cominciamo a col chiedergli il perché di questo libro. «Al mio editor ho detto che non volevo che fosse una tipica biografia musicali. Non mi interessava fare un libro sulla musica per gente di musica, anche se la musica chiaramente non manca. La prima parte del libro è la storia di una ragazzo di quartiere che arriva al top del rock ‘n roll e questa di per se è una storia straordinaria, non voglio certo apparire ingrato. Ma le cose diventano più interessanti nella seconda parte, dopo che lascio la E Street Band senza un progetto preciso per il futuro e mi trovo in un certo senso davanti all’abisso. Quando ho lasciato il gruppo, per me non è stato un semplice cambio di mestiere, era come finire la mia vita, quei quindici anni guidati da un unico obbiettivo: sfondare nel rock. Era sembrato un sogno impossibile ma alla fine ce l’avevamo fatta, avevamo il successo. E in un certo senso ho dovuto ricominciare da zero. Insomma, mi sono detto che forse questa storia su quello che ho fatto dopo, sarebbe potuta essere utile a chi ha provato delusioni, un progetto di vita non andato in porto o una tragedia inaspettata, ed ha creduto che la propria vita fosse finita. Se riesci a trovare la maniera di superare quel momento, di non lasciarti fermare, soccombere all’alcol o alla droga o al suicidio – che avevo tutte prese in considerazione – allora può essere che il destino ti serbi delle sorprese.

Per lei questo ha anche comportato diventare attore…

I Soprano sono stati uno straordinario regalo di David Chase. Avevo più di quarant’anni ed ecco che qualcuno mi offriva un mestiere nuovo. Ritengo di aver sofferto da sindrome del deficit di attenzione da ben prima che andasse di moda, ma quando faccio una cosa mi ci applico al 100% e recitare è stata una di quelle. Non avevo letteralmente nulla di meglio da fare e ci ho provato

Nel libro, cita «Subterranean Homesick Blues» di Bob Dylan come il Big Bang della coscienza politica del rock…

Sì, lui ha introdotto la protesta nel nostro Dna – è sempre là ma ormai si manifesta solo occasionalmente. E fa parte dei «figli» musicali del rock, in particolare l’hip hop e il reggae che rimangono assai efficaci nel comunicare contenuti di sostanza ad un pubblico di massa come faceva un tempo il rock. Oggi non credo che il problema sia della forma artistica ma semmai della società e della sua frammentazione. Non abbiamo più esperienze condivise di massa e così è anche più difficile mobilitare un pubblico come avevamo fatto all’epoca contro l’apartheid (producendo l’album Sun City, ndr.). Credo che continueranno ad esserci ogni tanto dischi e concerti con vari artisti costruiti attorno a questioni politiche. Io ho appena lavorato ad un progetto ambientalista con Bootsy Collins, ma personalmente ho cambiato un po’ direzione. Cerco di guardare avanti di varie generazioni e credo che l’arte possa contribuire specificamente nell’ambito dell’istruzione . Abbiamo lanciato (con Bono, Bruce Springsteen, Jackson Browne e Scorsese, ndr.) Teachrock.org – un sito che offre spunti e piani di studio ad insegnanti per integrare il rock nelle lezioni scolastiche. L’idea è di mantenere le arti parte integrate dell’educazione, non un doposcuola, ma elemento di materie come la matematica, la tecnologia, l’ingegneria…

Lei siede sul comitato di selezione del Rock ‘n Roll Hall of Fame, cosa pensa degli ultimi premiati?

Fra quelli nominati quest’anno sono particolarmente fiero di Charlie Patton nella categoria country-blues e di Gil Scott Heron, un precursore fondamentale di tutto il movimento hip hop – un po’ come i Last Poets che secondo me anche loro dovrebbero avere un posto nel Hall of Fame. Charlie tra l’altro, oltre ad essere un genio del blues – perfino Robert Johnson aveva imparato da lui – era anche di sangue indiano ed era doveroso avere anche una rappresentazione nativa.

La storia del rock è anche storia d’America – come valuta il momento attuale del paese?

Ultimamente le cose sono cambiate in fretta e per il peggio. Io sono sempre stato dell’avviso che, malgrado i numerosi incidenti di percorso, fossimo su una parabola di progresso dalla seconda guerra mondiale in poi. Questo fino a cinque anni fa. Ora, per la prima volta nella mia vita mi sembra che ci stiamo muovendo in senso inverso. I muri che stavamo abbattendo sono in via di ricostruzione, c’è nazionalismo ovunque, ovunque estremismo religioso. Girando per il mondo in tour nel 2017, 2018 e 2019 ho potuto constatare che la stessa cosa sta avvenendo in tutto il mondo. Non sono solo gli orrori di Trump o della Brexit – è il Brasile, l’Ungheria, la Polonia, Australia, India, Indonesia… ovunque si guardi ci sono i problemi del nazionalismo e della divisione. È difficile capire cosa si possa fare oltre a cercare a parlarci… tentare di abbattere alcune delle barriere. Non ho mai visto il mondo in uno stato più disperato di oggi. Il mio paese è a rischio democrazia. Non è iperbole, siamo ad un passo dalla potenziale fine della democrazia – anzi, a meno di un inversione di rotta nelle elezioni del 2022, questo è probabile ed avrebbe forti ricadute sul resto del mondo. Il problema è che è in corso una guerra ma solo una delle parti la sta combattendo davvero. La nostra parte cerca di ricucire lo strappo, di «lavorare assieme» mentre agli avversari interessa solo vincere. E finché non capiremo che siamo in una battaglia che deve essere combattuta, i «buoni» saranno destinati a perdere. Non so quale sia la risposta, oltre a continuare ad educare, organizzare e mobilitare il voto. Ma la strategia repubblicana, come abbiamo visto, è proprio di inibire la volontà popolare e delegittimare le elezioni.

In Italia non si parla che dei Måneskin, se non sbaglio recentemente lei ha avuto occasione di incontrarli e anche di vederli suonare a Milano ….?

Sì, e posso dirvi che non ho mai visto un pubblico urlare a quel modo per una band di rock – le ragazze urlavano come fossero i Beatles (ride) e sinceramente non me l’aspettavo. È vero, dal vivo i concerti rock sono ancora imbattibili, ma quand’è l’ultima volta che avete visto un pezzo rock nelle Top Ten? Sono decenni. Mentre loro sono la band di maggior successo in non so quanto – vendono dischi, chi avrebbe detto che fosse ancora possibile!? E poi raggiungono i ragazzi, sono multi generazionali e questo non può essere sottovalutato – è importantissimo. Li ho incontrati e li ho visti a Milano e a New York – sono ancora alle prime battute e vedremo poi se saranno davvero un eccezione alla regola, ma potrebbero davvero fare la differenza.

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