Visioni

L’odissea del bassotto in un mondo indifferente

L’odissea del bassotto in un mondo indifferenteGreta Gerwig

Cinema Al Sundance dei grandi ritorni, Spike Lee, Whit Stillman, Ken Lonergan anche Todd Solondz con la tragicommedia «Wiener-Dog», protagonista ricorrente un cagnolino

Pubblicato più di 8 anni faEdizione del 26 gennaio 2016

È stato un inizio di «grandi ritorni». A ricordare l’impatto enorme che la manifestazione di Robert Redford ha avuto sul cinema americano degli ultimi vent’anni, sono apparsi a Park City, alcuni dei suoi alumni più celebri. Scoperti, agli albori del Sundance, quando ancora le proiezioni si concentravano in una o due sale, Todd Solondz (Welcome to the Dollhouse), Kelly Reichardt (River of Grass), Whit Stillman (Metropolitan), Kevin Smith (Clerks), Spike Lee (Nola Darling), e Kenneth Lonergan (You Can Count On Me), tutti in ottima forma, hanno portato al festival i loro nuovi film – in un caleidoscopio di visioni personalissime che vanno dal gotico suburbano del New Jersey (Solondz), all’infanzia di Michael Jackson (un doc di Lee), all’Inghilterra di Jane Austen (Stillman), alle viste sterminate del Montana (Reichardt), alle coste gelide del Massachusetts (Lonergan) fino al demenziale selvaggio di Kevin Smith e del suo Yoga Hosers, un spin off dell’impareggiabile Tusk, e una detective story di famiglia, interpretata da Johnny Depp, sua figlia Lili-Rose, Vanessa Paradis e dalla figlia di Smith, Harley.

Tra tutti, quello accolto con più entusiasmo (Amazon l’ha comprato per 10 milioni di dollari dopo la prima proiezione) è stato Manchester By The Sea, di Ken Lonergan, un melodramma famigliare da New England, in cui la morte del fratello costringe Casey Affleck a tornare al paese di pescatori dove è nato e a rivisitare la tragedia che l’ha costretto ad andarsene.

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Ben scritto (Lonergan è soprattutto un autore di teatro) e ben interpretato, Manchester è anche il più convenzionale dei film di sopra. Al suo confronto, il salto nel passato di Whit Stillman, Love & Friendship, tratto da Susan, di Jane Austen, è un oggetto molto più fresco, originale. Raffinato ritrattista del jet set, prima newyorkese e poi internazionale, il waspissimo Stillmann adatta Austen pensando a Henry James, per raccontare la storia di una vedova spregiudicata (Kate Bekinsale) a caccia di marito ricco, che scopre di avere una figlia ancora più spregiudicata di lei.

Affiancato dalle sue attrici di The Last Days of Disco (oltre a Bekinsale, Cloe Sevigny), l’ex ragazzo delle notti brave di Park Avenue – oggi un signore stropicciato che ha superato la mezza età- inietta nella comica disperazione della sua vedova manipolatrice una sfumatura autobiografica affilata e commovente.

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Altrettanto «suo» e riconoscibile il mondo del nuovo film di Kelly Reichardt, Certain Women, tratto da tre racconti della scrittrice del Montana Maile Meloy. Assorbito quasi per osmosi, a forza di attraversare il paese in auto, il paesaggio americano è parte del Dna di Reichardt. Su quello sfondo, magnificamente dipinto dalla fotografia di Christopher Blauvelt, la regista di Wendy and Lucy e Meek’s Cutoff , compone con grandissima attenzione le storie sfrangiate, inafferrabili, di tre donne – un’avvocatessa ossessionata dal cliente che non può aiutare (Laura Dern), una donna di successo che sta mettendo su casa per la famiglia (Michelle Williams) e una giovane rancher indiana (Lily Gladstone), affascinata dalla stressatissima avvocatessa (Kristen Stewart) che incontra in un corso serale.

Sulle tre storie, che si intrecciano a malapena, incombe la minaccia di un conflitto, la quasi-certezza di una delusione. E intorno ai personaggi femminili – così ben in(definiti) nel titolo, «certe donne»- l’aura dolce di una solitudine e di una spigolosità inscrollabili. «L’occhio di Kelly si fissa su dettagli che la maggior parte di noi non nota nemmeno. Su cose che non si possono spiegare parlando», ha detto Kristen Stewart dopo l’applauditissima proiezione del film, cogliendo molto bene il senso profondo del lavoro di Reichardt, il cui cinema ellittico, minimale ed elegante è l’opposto dello scrittissimo, lineare, umanesimo di Lonergan

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«Una via di mezzo tra Au Hazard Balthazar, di Robert Bresson e la popolare commedia canina Benji». Emergendo a malapena da un parca gigante, la voce flebile e stridula di sempre, Todd Solondz descrive così la sua nuova, limpidissima tragicommedia, Wiener-Dog, un delicato, orrorifico, carveriano, inanellarsi di racconti filmati, accomunati dalla presenza ricorrente di un bassotto. Figura unica nella scena indie, per la temerarietà e l’empatia del suo sguardo («il cervello di cinema più originale e affilato sulla piazza», lo ha definito Ellen Burstyn, co-protagonista del film), Solondz è considerato radioattivo dai tempi di Happiness. Wiener-Dog era stato anticipato come un film più «dolce». Ma il fatto che non si parli di pedofilia o di masturbatori solitari non significa che la sublime combinazione di crudeltà e tenerezza che rende così speciale il lavoro di questo autore non si nasconda dietro alla fotografia pastello di Ed Lachman, in questi quadretti di provincia.

«Verità, compassione e amore sono i valori della nostra famiglia», spiega Julie Delpy al suo bambino, dopo averlo imbottito di bugie, terrorizzato con storie di barboncini e scoiattoli stuprati e avergli eutanasizzato il bassotto, Wiener -Dog. «Allora la morte è una bella cosa», conclude il ragazzino, guardando la mamma con occhio incantato. Ha già capito tutto…Verità, compassione, amore, e la loro (im)possibilità sono al cuore del cinema di Solondz che, nel film, usa la presenza indifesa, ieratica a un po’ grottesca del cagnolino a forma di salsiccia (wiener è il wurstel), quasi come un termometro. «Sono cresciuto in mezzo ai cani. Ne abbiamo avuti molti, uno dopo l’altro. In casa nostra duravano a lungo…È stata la mia prima lezione di mortalità», ha detto il regista.

Il primo racconto del film, che si apre con una citazione diretta da Boyhood, di Richard Linklater, è ambientato in una famiglia benestante, il cui padre (il drammaturgo Tracy Letts) porta un bassotto al suo bimbo da poco sopravvissuto a un cancro. Tra i due nasce un amore immediato, che sfocia in una danza con nuvole di piume alla Zero En Conduite e in un mare di diarrea nel soggiorno di casa. Dato per morto sul tavolo del veterinario, Wiener-Dog resuscita grazie all’intraprendenza di un’infermiera, Dawn Wiener, che si chiama come la protagonista di Welcome to the Dollhouse ma è interpretata da Greta Gerwig. Insieme a Dawn, torna anche il suo compagno di scuola (e torturatore) Brandon (Kieran Culkin). I due si reincontrano in un minimart e partono, con cane, per un viaggio a casa del fratello di lui, affetto dalla sindrome di Down.

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E lì il cane passa nuovamente di mano. Ma è davvero altruismo? Solondz non ci da’ tregua. E dopo l’ammicco a Linklater, evoca Tarantino con un «intermezzo» su musiche western (The Ballad of Wiener Dog composta appositamente) in cui l’ineffabile bassotto – su sfondi diversi – continua la sua epica ricerca per una casa sicura (verità compassione e amore..).

Il film scorre in un crescendo in cui gli episodi non sono nemmeno più legati uno all’altro. In quello più esplicitamente autobiografico, con Danny De Vito, nel ruolo di un professore di cinema a New York (è l’occupazione di Solondz quando non gira), il bassotto –che si fa una presenza sempre più periferica, quasi uno sguardo – diventa un cane bomba. Mentre nell’ultimo, in cui si chiama Cancro, è testimone dell’incontro lancinante tra una ricca nonna malata (Burstyn) e la patetica nipote (Zosia Mamet), venuta di nuovo a spillar soldi – non per droga, questa volta, ma per finanziare il pseudoartista black di cui si è malauguratamente innamorata. Quando la vecchia signora, rimasta sola, esce in giardino, si trova circondata da bimbe con i capelli rossi, identiche una all’altra. Ma il lussureggiante scarto fantasy dura solo un attimo. Cut e… no, il bassotto non ha trovato una casa. La cifra dell’umanità, per Solondz, rimane l’indifferenza.

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