Tradurre Omero significa confrontarsi con una lunga tradizione di tentativi, spesso illustri, di adattare al proprio tempo e riappropriarsi di Iliade e Odissea, opere monumentali che vanno oltre il semplice ambito della letteratura o dei classici. Si tratta di una sfida imponente e pericolosa: le due tensioni consuete del traduttore – preservare l’originale o riprodurne piuttosto lo spirito con forme del tutto nuove, farne quasi una riscrittura – diventano ancora più pressanti per l’inevitabile confronto con altri autori che si sono cimentati nell’impresa.

Dopo Foscolo che per dare autenticità a Omero vi restituiva le proprie passioni, o Monti che ne ridisegnava l’immaginario a uso e consumo delle élites nobiliari già affascinate da Napoleone e dai modelli neoclassici, la fortunata traduzione dell’Iliade di Rosa Calzecchi Onesti, voluta da Pavese e pubblicata da Einaudi nel 1950, aveva segnato una svolta. Omero era ormai diventato una sorta di «classico italiano minore», scriveva Pavese nella sua Prefazione. Nella traduzione rigo per rigo, la lingua di destinazione ripulita da ogni presenza ingombrante e autoriale si prestava a essere una sorta di calco, efficace per tornare al greco stampato a fronte e comprenderlo; operazione non esente dai condizionamenti estetici del proprio tempo, se l’Omero riletto in originale in questa programmatica prospettiva antropologica risulterebbe, secondo Pavese, «così oggettivo, così schietto, così immediatamente “parlato”», da finire per somigliare «più ai narratori neorealisti che non alle sue traduzioni correnti».

Questa modalità «interlineare» diventa un modello da cui dipendono in gran parte le successive traduzioni in lingua italiana in cui, a fianco dei poeti, intervengono specialisti di Omero per riconsegnarne la poesia a diverse opzioni: versi liberi, variamente orientati a suggerire il metro originale (Cerri, Paduano, Ferrari), e forme di prosa narrativa (Ciani) o adattata in righi corrispondenti all’originale (Privitera, Di Benedetto).

Si tratta di traduzioni importanti e rigorose, a opera di studiosi già affermati e autorevoli: ed è in questo scenario che uno studioso giovane e coraggioso, Daniele Ventre, irrompe con una versione quasi da esordiente dell’Iliade nel 2010 e a seguire una dell’Odissea nel 2015, per l’editore Mesogea, di cui ora propone una «versione interamente rivista», con densa introduzione e ricco commento a comporre un volume «enciclopedico» di 1.310 pagine (Omero, Odissea, traduzione e cura di D. Ventre, Ponte alle Grazie, euro 49,00).

La sua posizione è netta e dichiarata in modo esplicito: nelle traduzioni che rinuncino a rendere la natura esametrica dell’epica, la particolare successione di sillabe brevi e lunghe, e il ritmo in cui la stessa espressione grammaticale trova rispondenza nel metro, la poesia omerica rischia di risultare come un «cadavere dissezionato». Espressione forte e provocatoria, ma non priva di fondamento. La dizione epica, come ben noto da un secolo di studi sulla poesia orale, consentiva al pubblico originario di assistere alla performance di un «organismo vivente» in cui la combinazione di parole, ritmo e suono pertiene alla stessa «dimensione cognitiva» del racconto nel suo farsi, verso dopo verso, e nel suo dare forma a un immaginario e a una enciclopedia di saperi e conoscenze.

Elemento distintivo

In questa prospettiva, «la disintegrazione dell’epos come verso» diventa un «addomesticamento improprio del racconto» e, più in generale, della parola poetica che perde di «riconoscibilità», specie nella riduzione a prosa o a righi di prosa, e finisce per essere considerata come «un ornato superfluo» piuttosto che elemento distintivo. Sono parole dure e risolute, giustificate da una lunga immersione nella lingua omerica e dalla continua sperimentazione nel ricalcarne il linguaggio. Ventre, traduttore e interprete allo stesso tempo, si ‘impregna’ di Omero fino a spingersi a «considerare parzialmente non grammaticale una traduzione che non cercasse, con i mezzi della lingua di arrivo, di ricodificare anche il ritmo degli epe», cioè della sostanza stessa dell’epica.

Il dibattito sul «dire quasi la stessa cosa» è da tempo aperto, e ogni epoca e cultura troverà le proprie soluzioni perché la traduzione, per parafrasare lo scrittore keniota Ngugi wa Thiong’o, possa continuare ad aprire le porte alle prigioni delle lingue e delle nazioni ed essere alleata delle letterature di tutto il mondo. Quel che si può qui suggerire è di mettere alla prova l’efficacia del tentativo di Ventre, magari leggendo ad alta voce per saggiarne le soluzioni in cui permane la dizione formulare – come «Odìsseo costante» sempre in chiusura di verso – e il ritmo accentuativo che ricalca con precisione l’esametro e le cesure di metà verso – «di molti uomini vide città / ne conobbe la mente». Si potranno apprezzare innovazioni come «Atena Occhi-di-strige», per l’epiteto glaukôpis, in genere inteso in riferimento a glaukós, tonalità di azzurro in cui prevale l’aspetto luminoso e scintillante, e quindi reso con «occhio azzurro» (Calzecchi Onesti) «dagli occhi azzurri» o «celesti» (Ciani, Cerri, Ferrari); ed è appunto il colore degli occhi della civetta, glaúx, con cui si identificava una divinità notturna di una fase pregreca e che permane nella dizione epica, come altri ‘reperti’ di età precedenti, ormai svuotato del significato originario. Il ricorso a «strige» (stríx è il rapace notturno da cui derivano striga e strega), termine esotico (e letterario: da Sannazaro a Montale), ma reso popolare dalla sua presenza in Dungeons & Dragons, consente a Ventre di ricalcare l’originale greco con una forma alternativa a quella erudita glaucopide (Privitera) e di realizzare la stessa funzione straniante che la formula, frequentissima in chiusura di verso, doveva avere per l’originario pubblico di Omero.

Di certo quella di Ventre non è una traduzione poetica o d’autore, in versi liberi o ‘barbari’ – come si sono definiti da Carducci in avanti i tentativi di rendere metri classici in lingua italiana – ma piuttosto una traduzione omerica, quasi a riflettere l’adagio degli antichi di ‘spiegare Omero con Omero’. Questa nuova Odissea offre infatti un testo in grado di rispecchiare con efficacia e autonomia l’originale: sia per quanti vi riconosceranno facilmente le parole greche, sia per apprezzare almeno in parte la dizione epica, le sue formule e il suo ritmo narrativo, anche senza una diretta conoscenza della lingua omerica.

Un’operazione così ambiziosa non poteva che nascere da un’interpretazione complessiva del poema nel contesto delle tormentatissime «questioni omeriche». Una «tradizione multiforme», come segnala il titolo dell’Introduzione, appunto «Epos polýtropon», sfruttando l’epiteto caratterizzante Ulisse qui reso come «l’eroe dalle vie molteplici», rispetto a «ricco d’astuzie» (Calzecchi Onesti) o «versatile» (Privitera), conservando l’elemento direzionale di trópos/trépein e quindi la dimensione del viaggio e del navigare che costituiscono il sostrato principale dell’Odissea.

Mitopoiesi fiabesca

Ed è forse proprio questo il contributo più significativo: restituire pienamente la figura e il ‘tipo’ narrativo di Odisseo a una tradizione che precede la formazione dell’epopea eroica micenea in cui solo successivamente il campione dell’‘astuzia’ entrerà a far parte, accanto ad Achille, Agamennone e Diomede. Questo sostrato, probabilmente cretese, nasce dal contatto con saghe che provengono dall’Africa e dall’Oriente, a partire dallo stesso nome «extra-omerico» Olysseús, Oulixés (riconducibile a un etimo siro-fenicio), e introduce un eroe della navigazione avventurosa in un mare spesso ancora ai confini con le soglie del fantastico e dell’inesplorato: ma già solcato dalle rotte commerciali dei Fenici, tra la penisola di Canaan e il delta del Nilo, e Creta come punto di riferimento. Un eroe della mêtis, l’intelligenza proattiva di marinai e mercanti in grado di superare ogni difficoltà, polýmetis («ricco di ingegno») e polyméchanos (dalle «mille risorse»), un trickster spesso fraudolento e in incognito come nei racconti menzogneri in cui si presenta come ‘Cretese’ ad Atena (13, 256-286), al fedele porcaio Eumeo (14,192-359) e al capo dei pretendenti Antinoo (17, 415-453). E in incognito arriva anche dal re dei Feaci Alcinoo e dal mostro Polifemo (9, 366): «il nome mio è Nessuno: Nessuno mi chiamano infatti», mitopoiesi fiabesca degli «incontri non sempre fortunati fra i mercanti greci… e le popolazioni dell’Italia meridionale», caratterizzate da stili di vita ancora primitivi, ignare di agricoltura e organizzazione politica, nel corso di quella prima fase di espansione greca verso occidente dei cosiddetti ‘secoli bui’ (XII-IX a.C.) cui il commento di Ventre conferisce nuova e interessante luce.

In questo modello eroico si ritrova un’eccellenza ben diversa rispetto a quella di matrice indoeuropea e iliadica degli eroi guerrieri della timé, vale a dire lo spasmodico desiderio di onore e di riconoscimento pubblico del proprio valore, il vincolo meritocratico dell’agire che impone continuamente di primeggiare ed è sanzionato dall’aidós, la ‘vergogna’ insopportabile di fronte all’insuccesso e il fallimento.

Un Gilgamesh dei mari

Ulisse è piuttosto un «Gilgamesh dei mari» le cui «peripezie coincidono con le direttrici piratiche alla vigilia della transizione dall’età del bronzo all’età del ferro», e ne condivide numerose caratteristiche, dal ruolo di fondatore ai tratti sciamanici, così come l’Odissea riflette sin dal proemio alcuni elementi strutturali del poema mesopotamico. Relazioni e collegamenti già da tempo individuati dalla critica ma qui presentati in una raccolta sistematica la cui l’originalità consiste nell’insieme piuttosto che nelle singole parti, grazie al meticoloso lavoro di scavo linguistico e archeologico, di recupero di testimonianze storiche, di identificazioni di località. Una minuziosa raccolta di dati, notizie, interpretazioni che consentono di rileggere l’Odissea nella sua stratigrafia come il risultato della contaminazione tra un’«epopea cretese-meridionale» e le tradizioni achee dei nóstoi, i ‘ritorni’ degli eroi da Troia; espressione di una concezione del mondo nuova, emergente nel periodo successivo il crollo dei regni micenei, il cui protagonista diventa il «motore antropologico dell’espansione coloniaria dei Greci».

Certo vi sono alcuni casi di sovrainterpretazione, come la datazione del poema al 730-710 a.C., sulla base di una serie di indizi, in particolare le «analogie strutturali fra l’esordio della Teogonia e quello dell’Odissea», ipotesi avvalorata dal confronto con la «procedura scrittoria pensata per agevolare la riconoscibilità metrica dell’esametro» dell’iscrizione della Coppa di Ischia (723 ca.), ritenuta «funzionale alla conservazione dell’epos e all’apprendimento della dizione epica». O ancora va forse attenuata la ricostruzione della composizione del poema, condotta sulla falsariga della teoria ‘analitica’ di Kirchhoff, pur con le «debite precisazioni»: Ventre suppone l’opera di un cantore che avrebbe rielaborato materiali propri, provenienti da antiche tradizioni, in un poema monumentale caratterizzato da strutture narrative raffinate. Una soluzione autoriale forse troppo moderna per essere plausibile e che trascura la possibilità sostenuta da molti studiosi di una redazione molto più tarda, in età pisistratea, verso cui tendono numerosi altri indizi. Ma si tratta di considerazioni accessorie rispetto a un problema destinato a restare aperto, in cui i punti di vista diversi, al di là delle soluzioni proposte, non possono che giovare a una migliore interpretazione del testo e della sua infinita complessità.

Ed è il caso di questo importante lavoro, di cui si apprezza la straordinaria dedizione con la quale uno studioso abbia ingaggiato da solo, e da così lungo tempo, una sfida titanica, in un’epoca di specialismi in cui è ormai raro un approccio così sistematico: che ha certo il merito di presentare un’edizione coerente dove introduzione, traduzione e commento si completano e si integrano perfettamente tra loro.