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L’occupazione addomesticata

L’occupazione addomesticataLa Miroiterie

Reportage Miroiterie, 59Rivoli, Shakirail: il triste declino degli squat artistici di Parigi, fra sgomberi e nuove regole di convinvenza

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 3 maggio 2014

Il crollo di un muro, che lo scorso 20 aprile ha provocato due feriti, ha segnato la fine del più vecchio squat d’artisti rimasto nella capitale francese: per ordine delle autorità, infatti, la Miroiterie, sorta nel 1999 in una fabbrica di vetri abbandonata, all’88 di rue de Ménilmontant, e nota soprattutto per i suoi concerti punk, chiuderà definitivamente i battenti il prossimo 14 maggio, giusto il tempo per consentire agli occupanti di trovare un’altra sistemazione. A peggiorare la situazione, un incendio di origine dolosa è stato appiccato alla struttura nella notte fra il 25 e il 26 aprile.  Questo episodio, così emblematico, sembra suggellare, sia idealmente che materialmente, la fine di un’intera storia: quella degli squat artistici di Parigi che, esauritasi la spinta contestataria e propulsiva del ventennio precedente, sin dal 2002 sono entrati in un meccanismo istituzionale, che sembra sia riuscito a «recuperare» anche questa esperienza all’interno della dinamica di estrazione capitalista.

Nel 2002, infatti, si è tenuta al Palais de Tokyo una grande e assai contestata manifestazione dal titolo Festival art et squa», con cui si è celebrata e – per alcuni dei protagonisti più critici – anche chiusa la storia degli squat artistici parigini. Nello stesso periodo, con una mossa faustiana, l’allora sindaco Bertrand Delanoë aveva sottratto all’illegalità il più famoso spazio occupato dagli artisti di Parigi, quel «Chez Robert / Electron Libre», altrimenti noto come «59 Rivoli», che è stato ristrutturato dal Comune di Parigi, messo in sicurezza e riconsegnato nel 2009 a un’associazione creata per l’occasione dagli ex squatter, trasformatisi nel frattempo in «gestori del locale».

L’era del «post»

Dalla legittimazione dell’occupazione, ottenuta sul campo nel corso di un processo vinto dagli occupanti contro il proprietario (la compagnia CDR) che aveva abbandonato all’incuria l’edificio, alla sua legalizzazione, sancita dall’acquisto dell’immobile da parte del Comune e dalla riconsegna agli ex occupanti: il «59 Rivoli», a causa della sua istituzionalizzazione, diventando un aftersquat, ha aperto la strada all’era del post-squat appunto, in cui gli squat d’artisti sopravvivono come simulacro alla propria sparizione fisica. In questo modo, senza rischi (i post-squat sono stati «messi in sicurezza») e senza contraddizioni ideologiche sostanziali (i post-squat non sono occupati illegalmente ma gestiti legalmente), lo squat postumo può funzionare perfettamente da fantasma della città incantata o, in termini più prosastici, da logo da esibire sulla cartina della Parigi che non può smettere di essere bohémienne.

Nel 2009, all’inaugurazione del nuovo «59 Rivoli», di fronte alle facce perplesse dei suoi vecchi estimatori che non riconoscevano più quell’edificio imbiancato e ripulito, Gaspard Delanoë, membro del trio Kgb (Kalex, Gaspard, Bruno) che occupò lo squat nel 1999 e che ora presiede l’associazione assegnataria dello spazio, si affrettò a tranquillizzarli: «Fra sei mesi tornerà tutto come prima!» E, in effetti, a passarci oggi, il «59 Rivoli» si presenta di nuovo tutto colorato, sia all’esterno che all’interno, le stanze sono ingombre di opere e strumenti degli artisti. Sembrerebbe che l’unica differenza consista nella saletta da concerti, con vetrina sulla strada, ricavata ex novo al pianoterra (prima della ristrutturazione i concerti si tenevano nel pericoloso sotterraneo). Gaspard è ancora lì con il suo Museo Igor Balut degli oggetti perduti (in persona, però, lui si presenta solo il venerdì) e ci sono molti degli artisti squatter storici: c’è Fabesko con le sue statue pop che rivisitano in chiave politicamente scorretta i supereroi; c’è lo Suisse-Marocain con i suoi dipinti ironici; c’è il musicista Barry Jones con le sue ballate malinconiche. Ma la vera differenza è che gli artisti non vivono più lì: ora ci lavorano soltanto, il loro modo antagonista di fare arte non è più congiunto con il loro modo di vivere: il plusvalore della loro creatività, in questa fabbrica dell’arte istituzionalizzata, può essere estratto dalla grande macchina turistica francese senza rischi per la salute e l’ideologia dei benpensanti.

Lo strano caso dello Shakirail

La stessa sorte sembra essere condivisa dallo Shakirail, uno squat d’artisti che si trova al 72 di rue Riquet, nel ben più popolare XVIII arrondissement, e che è gestito, grazie a una convenzione con la Sncf (la Società ferroviaria francese), dal collettivo Curry Vavart, specializzato in recupero di spazi da trasformare in atelier e sale prove (www.curry-vavart.com). Qui, però, sarà per la possibilità di alloggiare artisti in residenza, troviamo anche una gestione degli spazi che risulta alternativa non solo all’apparenza ma anche nella sostanza: innanzitutto, non si presenta affatto come un luogo turistico (a sbarrare l’accesso c’è un cancello con lo stencil di un gatto soffiante, tutto intorno filo spinato); inoltre, nell’area che circonda i due edifici di questo post-squat, si trovano un orto urbano, un allevamento di api e di galline, nonché delle roulotte per ospitare circensi girovaghi. All’interno dell’edificio dedicato agli atelier, troviamo, al pianoterra, un open space con laboratori per lavorare il ferro e il legno, per disegnare, pitturare e cucire. Al primo piano si trova uno spazio relax, con cucina e videoproiettore; una biblioteca; un teatrino da cento posti. Lungo le scale c’è uno spazio espositivo. Nei sotterranei dell’edificio residenziale troviamo una saletta per concerti e una sala prove per musicisti. «Rispetto a Parigi, questo squat è super potente» nota entusiasta una delle artiste del collettivo femminista transnazionale «idea destroying muros» (www.ideadestroyingmuros.blogspot.com), ospite dello Shakirail e al lavoro nel laboratorio di cucito per preparare, con vestiti di seconda mano realizzati da donne, la mostra Arcipelaghi in lotta. Le isole post-esotiche, che sarà allestita all’Università di Paris VIII dal 5 al 28 maggio. «Voglio dire, rispetto alla durezza della città imperialista – continua – qui trovi galline e api». Proprio così, ma chissà fino a quando?

Alloggi a tempo determinato

Gli spazi assegnati dal Comune di Parigi alle associazioni di ex-squatter sono tutti a termine. In un servizio su France 3, reperibile su internet, un funzionario comunale dichiara, infatti, che il Comune mette in sicurezza gli spazi, li affida a un canone simbolico (150 euro al mese normalmente), lascia totale libertà di gestione ed espressione agli artisti degli aftersquat, ma tutto ciò fino a quando l’Istituzione non deciderà di riprendersi lo spazio.

E chi non accetta queste condizioni è condannato al solito trattamento: lo sgombro e l’espulsione oltre le mura della città, come è capitato a dicembre al «B.L.O.C. – Bâtiment Libre Occupé Citoyemment», cacciato dal palazzo popolare occupato in rue de Mouzäia e costretto a trasferirsi a Bagnolet. Questo perché la determinazione del piano urbanistico resta saldamente e unicamente nelle mani della tenaglia Stato-Mercato, in un continuo processo di gentrificazione dei quartieri popolari, a cui presto o tardi si estenderà quella «grande Disneyland patrimoniale che è diventato il centro di Parigi», come rileva il giornalista David Langlois-Mallet, aggiungendo che, costruendosi attualmente la capitale francese (come ogni grande capitale europea) sui due grandi assi della valorizzazione del patrimonio e dello sviluppo del lusso, «nei quartieri popolari di Parigi la macchina dell’espulsione è in cammino con un trittico implacabile: Artisti addomesticati; Spazi popolari scomparsi; Famiglie emarginate e ben presto esiliate da Parigi» (www.unpeuplecreatif.fr).

Oltre che nella prospettiva storica del loro fisiologico esaurimento, la chiusura di luoghi come il Tacheless di Berlino, l’espulsione dell’Angelo Mai di Roma, la fine della Miroiterie di Parigi, sono probabilmente da collocare in questo processo più vasto e di lungo periodo che coinvolge le capitali europee.

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