L’occhio rituale della sperimentazione
Rassegne La mostra di Marina Malabotti alla Galleria nazionale di arte moderna, che ha acquisito anche l'archivio della fotografa
Rassegne La mostra di Marina Malabotti alla Galleria nazionale di arte moderna, che ha acquisito anche l'archivio della fotografa
L’archivio come sguardo privato e pubblico, «luogo» che si fa collettivo per una immersione – e poi riemersione – nella memoria. È proprio nell’ambito di questa politica «aperta» della Galleria nazionale di arte moderna – l’acquisizione sistematica di importanti fondi, stimolata dalla direttrice Cristiana Collu e con la preziosa cura della responsabile Claudia Palma – che tornano alla luce le immagini di Marina Malabotti, fotografa che lasciò la vita a soli 41 anni, nel 1988.
Figura ibrida, grafica, designer e soprattutto «occhio» puntato sui cambiamenti della società (grazie alla sua collaborazione con l’antropologo-marito Francesco Faeta e il Collettivo Immagine e Controinformazione), Malabotti dopo gli anni dedicati alla ricerca sui riti funebri, sfociata nella mostra dal titolo Imago mortis, comincerà il progetto Un anno in galleria, costruito frequentando le sale e fotografandole giorno dopo giorno (il lavoro rimarrà incompiuto, interrotto dalla malattia) per offrire una testimonianza viva delle attività museali. Ora, l’esposizione che la rende protagonista, a cura di Giacomo Daniele Fragapane, cerca di restituire quel suo particolarissimo sguardo sospeso tra etnografia e indagine fenomenologica che capta le pieghe invisibili della realtà.
L’itinerario della rassegna (visitabile fino al 31 marzo) si compone di centosettanta fotografie e segue principalmente due diverse direzioni, senza mai deviare, favorendo la lettura delle immagini: quella dello studio antropologico che affonda le sue radici nel sud italiano e l’altra, più emotiva, che si nutre della «vicinanza» e contiguità con l’istituzione culturale che Malabotti stessa mette sotto osservazione stretta.
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