Tre mesi di riprese quotidiane in un microcosmo circoscritto. Quando possibile, anche il sabato e la domenica. Per circa dodici ore a giorno. Centosettanta/duecento ore di girato in cui scoprire un film, lentamente, ma con precisione inaudita, una volta arrivati al montaggio. «Il metodo» di Fred Wiseman è (in apparenza) semplice e ormai consolidato. Si permette poche variazioni. Ogni film il viaggio in un pianeta diverso.

Dopo la più mitica università pubblica del mondo (che nel suo magnifico At Berkeley diventava avvincente, commoventissima, metafora di un’utopia americana), uno dei suoi musei più ricchi e belli. Da un campus californiano a Trafalgar Square.

National Gallery, presentato ieri alla Quinzaine des realisateurs, tratta un’istituzione e dettagli diversi. Ma sembra legato anche emotivamente al film precedente del grande autore di Boston perché – fin dall’inizio- comunica l’impressione di essere entrati in un ecosistema magico quanto fragile, in un certo senso «a rischio». Ricerca scientifica, il valore intellettuale della contemplazione, l’ipotesi della scuola come di un luogo dove si lavora anche per avanzare il pensiero umano e, sì, per migliorare il mondo…erano alcuni dei grandi temi sottesi di At Berkeley. Ambientato com’è tra i muri del museo londinese, National Gallery è inevitabilmente un film sull’arte. Trattandosi di pittura è anche un film sullo sguardo, e quindi implicitamente sul cinema.

I quadri stessi, meno che gli aspetti più procedurali, burocratici, del funzionamento dell’istituzione sono il vero centro dell’attenzione di Wiseman che, fin dalle prime inquadrature del film prima ribadisce il mistero impenetrabile di quelle immagini dipinte e, subito dopo, ti invita a giocarci. Non solo sfondando i confini della cornice e del quadro stesso per fermarsi su dei particolari, ma in qualche modo dando loro vita. «Dovete pensare a questo quadro in una chiesa, illuminato solo dalla scarsa luce che arriva dall’esterno e da qualche candela. Era inteso come una specie di tramite con il divino», spiega una guida del museo alla piccola folla raccolta davanti a un dipinto religioso d’aspetto trecentesco, pieno di santi aureolati. In quella situazione di luce/ombra, continua la signora, era forse possibile immaginare che quei santi fossero lì veramente, una presenza reale.

Raccontate da numerose guide come questa, orgogliosi custodi di un incredibile, miracoloso, tesoro che va protetto e divulgato (anche per garantirne il futuro), dai quadri escono storie vere e proprie. Sono storie di punti di luce, di posizioni di una mano o di un braccio, di quello che di cela dietro agli occhi del soggetto di un ritratto, di pennellate applicate in un modo o nell’altro, di quello che sta sotto agli strati di colore e della sua stessa composizione.

Wiseman – la sua macchina saldamente piazzata di fronte a un dipinto, in asse nelle diverse gallerie, o sul volto di persone che a loro volta stanno guardando dei quadri – lascia filtrare serenamente l’arbitrarietà di tutte quelle storie. Ma al cuore del suo film è la gioia di come siano inesauribili.

Da alcune riunioni dello staff del museo, si capisce che, di anno in anno, i fondi stanno calando. Ci sono discussioni legate al bisogno di «comunicare» con il pubblico, di rendere più esplicita la funzione della Gallery. Ci si chiede se sia giusto o meno associarne l’immagine a eventi di massa, come una maratona – quanto sia importante il marketing. Una sera, contro la facciata superiore de museo, appare uno stendardo ambientalista su cui si vede un pozzo petrolifero – non è pittura a olio, salviamo il pianeta. Lunghe file di persone contornano l’isolato in attesa dell’apertura di una mostra dedicata a Leonardo. È quasi religiosa la cura con cui gli impiegati del museo tutelano la salute fisica delle opere….

Tra il contenuto delle austere sale tappezzate di rosso scuro, verde salvia e grigio perla, e il mondo esterno Wiseman stabilisce un rapporto di permeabilità, di dialogo, ma questa volta il suo occhio è meno sulle persone, che sul richiamo imprescindibile del dentro. Come dice anche nelle note di produzione, tra i suoi film, National Gallery è uno dei più astratti. Un film commovente, anche nel senso che illumina con naturalezza totale quel sublime che Mike Leigh si è sforzato invano di spiegarci in Mr. Turner.