Cultura

L’oblio che si trasmette

Scienza Uno studio inglese mette in relazione la somministrazione degli ormoni della crescita con lo sviluppo dell'Alzheimer, ma la ricerca prende in esame solo sei individui e va presa con le dovute cautele

Pubblicato circa 9 anni faEdizione del 11 settembre 2015

Alzheimer
Uno studio realizzato dal gruppo di ricerca guidato da Sebastien Brandner e John Collinge dello University College di Londra suggerisce un legame tra la somministrazione degli ormoni della crescita estratti da cadavere e lo sviluppo del morbo di Alzheimer. La ricerca, pubblicata dalla rivista Nature, si basa sull’analisi dei tessuti cerebrali effettuati su otto pazienti morti a causa del morbo di Creutzfeldt-Jakob trasmesso attraverso l’ormone della crescita.

Nel caso della «mucca pazza», la trasmissione del prione da cadavere a paziente attraverso le iniezioni di ormoni è un fatto ormai accertato. Negli anni ’60 e ’70, infatti, il trattamento a base di ormone della crescita estratto da cadavere era una pratica piuttosto diffusa in bambini e adulti di bassa statura: tra il 1958 e il 1985, 1848 pazienti inglesi sono stati sottoposti a questa terapia e il 3,6% di loro ha sviluppato il morbo di Creutzfeldt-Jakob. Se si uniscono le statistiche britanniche a quelle francesi e statunitensi, si contano 200 pazienti affetti da «mucca pazza» su 30mila individui sottoposti a iniezioni di ormoni. Nel 1985, questo metodo fu abbandonato proprio a causa del crescente numero di casi di Creutzfeldt-Jakob tra i pazienti che avevano seguito la terapia ormonale. Oggi, l’ormone della crescita è ancora utilizzato per rimediare ai difetti di sviluppo nei bambini e negli adolescenti ma viene sintetizzato attraverso metodi biotecnologici e non più estratto dai cadaveri.

L’ipotesi di Brandner e Collinge è che qualcosa di simile sia avvenuto anche per il morbo di Alzheimer: anch’esso potrebbe passare da una persona all’altra. In sei degli otto pazienti esaminati sono stati rinvenuti i segni iniziali dello sviluppo della malattia, come i caratteristici accumuli di alcune proteine e la formazione di placche amiloidi nel cervello. Il collegamento tra l’ormone e l’Alzheimer deriverebbe dalla biografia e dalle caratteristiche dei sei pazienti: erano troppo giovani per aver sviluppato la malattia spontaneamente, e non presentavano le mutazioni genetiche che predispongono alla malattia scoperte finora.

Ma è obbligatorio prendere con le pinze questi risultati. Prima di tutto, lo studio londinese riguarda solo sei pazienti, un numero molto esiguo per avere una sufficiente affidabilità statistica. Altri segnali tipici dell’Alzheimer appaiono assenti, e nulla dimostra che i pazienti, se fossero vissuti più a lungo, avrebbero davvero sviluppato la malattia. Molti colleghi di Brandner e Collinge si mostrano scettici: «non v’è alcuna evidenza definitiva che le manifestazioni cliniche dell’Alzheimer possano trasmettersi tra umani», ha dichiarato alla rivista The New Scientist David Irwin dell’università della Pennsylvania. Appena due anni fa, un suo studio leggermente più esteso (24 pazienti) aveva effettuato analisi analoghe a quelle pubblicate oggi con risultati opposti: né l’Alzheimer né altre malattie neurodegenerative come il morbo di Parkinson e la sclerosi laterale amiotrofica, sembravano trasmettersi da un paziente all’altro.

Saranno dunque necessarie altre ricerche, con numeri più grandi e risultati più specifici, per stabilire davvero un legame tra iniezioni di ormoni e morbo di Alzheimer, una delle malattie più studiate e diffuse al mondo, soprattutto nelle invecchiate popolazioni nord-occidentali.

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