Il meccanismo creato con il Trattato globale sugli oceani non potrà affrontare direttamente minacce «diffuse» – che richiedono altri interventi, si pensi al cambiamento climatico e ai rifiuti; anche se una zona «integra» come le aree marine protette resiste meglio agli stress. Ma soprattutto, la protezione del 30% degli oceani dovrebbe permettere di controllare, frenare, proibire la rapina di risorse ittiche, minerarie e genetiche nelle acque internazionali. Visto che l’Alto mare è più suscettibile di sfruttamento rispetto alle acque statali.

LA PESCA ECCESSIVA e la pesca illegale approfittano delle acque internazionali e peggiorano la situazione della fauna ittica, già sottoposta a pesanti pressioni: il degrado dell’ambiente marino, l’invasione di specie non native e il «solito» impatto dei cambiamenti climatici (importante lo studio di cento scienziati per la Fao, dal titolo Impacts of climate change on fisheries and aquaculture del 2018). I mega- pescherecci possono rastrellare 300 tonnellate di pesce in un giorno, con reti lunghe centinaia di metri. Pescano in aree vietate, catturano animali sotto taglia, ricorrono ad attrezzature inquietanti che raschiano i fondali e comportano molte catture accidentali di specie indesiderate – è il fenomeno del by-catch, milioni di tonnellate di animali, rigettati in mare morti o agonizzanti. Per non dire di tante specie protette: delfini, tartarughe, uccelli marini.

IL 90% DEGLI STOCK ITTICI «GESTITI» è oltre il limite dello sfruttamento. Una tendenza che spinge sempre più al largo le flotte pescherecce, in cerca di prede. Pescare in altura ha un costo elevato, per i trasporti e la refrigerazione: tecnicamente, e lo ha spiegato il documento The economics of fishing the high seas uscito su Science Advances nel 2018, oltre la metà di queste attività sarebbe in deficit se non fosse per le sovvenzioni da parte degli Stati e per la possibilità di sfruttare la manodopera. Ai limiti della schiavitù.

IL LAVORO FORZATO IN ALTO MARE diventa una criminale «necessità». In genere la fanno franca. Come spiega Mallika Talwar, Senior Oceans Campaigner di Greenpeace Usa, gli abusi sono più facili in mare aperto «dove l’isolamento e la mancanza di sorveglianza rendono i pescatori – spesso migranti con scarse tutele legali – più vulnerabili alla servitù per debiti, alle detrazioni salariali, ai lunghi orari di lavoro. Diversi i casi scioccanti di abusi e morte di lavoratori a bordo. Ma riuscire a proteggere chi lavora e catturare i colpevoli è difficile, soprattutto in un settore che pratica la pesca illegale, non dichiarata e non regolamentata (Inn)».

SECONDO FRONTE, LE MINIERE in fondo al mare: ecco un’altra terra di nessuno, anzi una promessa di devastazione, sottolinea Greenpeace Italia. L’appetito è grande, vista la domanda crescente (contro un’offerta relativamente scarsa) di metalli come rame, alluminio, nickel, manganese, zinco, litio, cobalto. A luglio la International Seabed Authority (Isa), commissione internazionale che regola le attività sui fondali, deciderà se autorizzare attività estrattive negli abissi marini (in inglese deep-sea mining) a partire dal 2026. Promette regole e un accordo globale. Per ora ci sono solo contratti di esplorazione; interessano 1,5 milioni di chilometri quadrati. L’Italia è fra i 36 paesi con diritto di voto all’Isa; a novembre ha sostenuto che prima occorre garantire la tuteladell’ambiente. Ma grandi compagnie come Saipem e Fincantieri sono interessate.

QUALI I POSSIBILI DANNI? Secondo la campagna internazionale contro lo sfruttamento minerario dei fondali, si sa troppo poco per rischiare l’impatto che rumore, vibrazioni, particelle sospese, inquinamento luminoso potrebbero avere sulla fauna marina. Si invoca da più parti il principio di precauzione. E la necessità di ridimensionare leattività estrattive ripensando le scelte economico-tecnologiche, e con il re-design, il riuso e il riciclaggio.

LA ZONA DI CLARION-CLIPPERTON nell’oceano Pacifico, spiega Alessandro Giannì, direttore delle campagne di Greenpeace Italia, è più estesa del continente europeo e raggiunge profondità media di oltre 5.000 metri. Fra montagne e vulcani vive un’enorme biodiversità marina. È anche un santuario per diverse specie di cetacei, alcune delle quali arrivate sull’orlo dell’estinzione per via della caccia. L’estrazione di noduli polimetallici che vi si trovano a milioni avrebbe effetti devastanti sulle comunità biologiche, sulla loro produttività e su altri servizi ecosistemici fondamentali, con un impatto certo sugli equilibri planetari. Inoltre il rumore martellante delle operazioni di ricerca e di estrazione, diffuso per diverse centinaia di chilometri attraverso il mare, 24 ore al giorno, senza sosta, interferirebbe con le frequenze utilizzate dai cetacei per comunicare. Dovrebbero abbandonare uno dei pochi luoghi in cui sono al sicuro.

TERZA RAPINA. QUELLA DELLE RISORSE genetiche marine. La bio-prospezione delle specie sott’acqua (spugne, krill, alghe, piante acquatiche, coralli, batteri) attira sempre più l’attenzione scientifica e commerciale per lo sviluppo a fini farmaceutici, alimentari, cosmetici. Siccome sono le multinazionali dei paesi sviluppati a possedere le tecnologie e i soldi per accedere alle risorse sviluppandone prodotti, senza l’accordo equo la maggioranza dei paesi non avrebbe Visto un euro del fiume di denaro, spiega sempre Greenpeace.