Giuseppe Conte annuncia un’organizzazione del M5S come contrappeso al potere acquisito in questi anni da parlamentari e uomini di governo e un voto degli iscritti che potrebbe confermare il tetto del doppio mandato. E Luigi Di Maio decide di rompere platealmente.

Il ministro degli esteri lancia il suo attacco schierandosi con nettezza sul fronte governista. Lo fa in nome del fatto che «il mondo è cambiato» e che il M5S non può restare «al 2018», cioè all’anno in cui lui era il capo politico e decise di portare Conte a Palazzo Chigi in maggioranza con la Lega. Adesso in molti si eserciteranno a cercare le tracce del Di Maio «estremista», di quando si mise in viaggio alla ricerca di relazioni con i gilet gialli francesi o si imbarcò nella campagna (durata due giorni) per l’impeachment di Mattarella. Ma la storia dell’unico politico che è stato stato ministro nei tre i governi di questa legislatura, è tutt’altra: Di Maio è sempre stato un moderato. Anche durante gli anni dell’opposizione ha surfato sull’onda del grillismo per atterrare sulla risacca politica e giocare le sue carte nelle acque stagnanti dei palazzi.

Il primo a scoprirlo fu Matteo Renzi. Appena salito a Palazzo Chigi l’allora segretario del Pd fece recapitare a Di Maio alcuni bigliettini. Lo aveva individuato come grillino ««istituzionale». Il giovane vicepresidente della Camera fu turbato e al tempo stesso inorgoglito dal tentativo di ingaggio renziano. Per la prima volta divenne consapevole di quello che sarebbe potuto diventare, racconta chi gli stava accanto. Per certi versi, insomma, Di Maio è una scoperta di Renzi, anche se la sua stoffa da centrista 2.0 risale ai tempi di quando era rappresentate di istituto al suo liceo a Pomigliano e strinse un accordo con i docenti basato sulla promessa che non ci sarebbe mai stata nessuna occupazione.

«Politica vuol dire realizzare», disse citando De Gasperi all’indomani del trionfo elettorale che lo avrebbe condotto al governo, dopo aver infarcito le liste del M5S di esponenti della società civile da lui cooptati, spesso e volentieri moderatissimi esponenti del mondo delle professioni (difficile immaginare di voler fare la rivoluzione con l’ex direttore del Tg5 Emilio Carelli). Di Maio si preparava a piazzare la sua forza politica al centro del malandato sistema dei partiti tradendo un automatismo culturale che ricorda, seppure in un contesto evidentemente tutto diverso, l’interclassismo della Dc. E che fa il paio con l’anomalia dei 5 Stelle come partito di massa privo di corpi intermedi e concreti referenti sociali.

Solo dopo sono venute le lenzuolate sul Foglio, la rete di rapporti istituzionale e diplomatica, il rapporto privilegiato coi sottosegretari Manlio Di Stefano, Dalila Nesci, Laura Castelli più che con la base dei parlamentari. Per capire come Di Maio investirà questo capitale di relazioni bisogna tornare ancora al 2018, all’origine della legislatura, quando declamava la strategia di medio periodo che anticipa la storia di questi cinque anni e tradisce una dichiarazione d’intenti: «Saremo l’ago della bilancia di qualsiasi governo».