Il contesto economico globale resta molto incerto. La fiammata inflazionistica sembra stabilizzarsi, si registra un primo rallentamento dei prezzi alla produzione (effetto anche di una domanda debole), le banche centrali non danno ancora segnali di inversione delle politiche monetarie restrittive, anche se si scorgono le prime crepe. Gli scenari di guerra e le tensioni internazionali non sembrano in via di soluzione, mentre scenari recessivi vengono ipotizzati per questo inverno.

Di certo l’inflazione sta erodendo il potere d’acquisto delle classi popolari e medie, riducendo i debiti e favorendo i profitti. In questo orizzonte difficile emergano attori in grado di adottare politiche strutturali di respiro globale. I principali paesi del mondo si affidano a una logica autocentrata, difensiva. In tale ripiegamento si afferma un ritorno più incisivo dello Stato. Più incisivo in quanto di una sua ritirata non si sarebbe potuto parlare neppure nella cosiddetta epoca neoliberista. Quando era protagonista nell’attivare e sostenere un modello definito in modo emblematico «keynesismo privatizzato».

Oggi il suo ruolo non può limitarsi a favorire unicamente logiche finanziarie, in quanto emerge l’urgenza di tornare a lubrificare direttamente la sfera produttiva. Le ragioni sono molteplici. Dal ritorno della geopolitica, con il suo portato di spese militari e produzioni strategiche, fino a necessità più strettamente economiche e sociali. Non a caso tra i temi più scottanti sul tavolo del governo italiano ci sono proprio possibili interventi pubblici per soccorrere l’economia nazionale. Al netto di una certa confusione negli orientamenti politici e di spinte opposte o centrifughe il processo va in direzione di una qualche forma di ripubblicizzazione di alcuni gangli nevralgici.

Il primo è il ritorno dello Stato a ritmi accelerati nelle acciaierie. Il settore rappresenta un polmone per l’industria italiana a cui nessuno vuole rinunciare, ma al contempo i vari esperimenti di privatizzazione, da campioni nostrani (Ilva-Riva) fino ad arrivare alla grande multinazionale euro-indiana (AcelorMittal), hanno fallito.

Il secondo caso è il fascicolo Ita, ex compagnia di bandiera. Società che ha vissuto ripetuti passaggi di proprietà, anche in questo caso da cordate italiane a una Compagnia mediorientale, rimanendo in uno stato di crisi permanente tale da renderla in svendita continua. Qua giocano fattori territoriali e nazionali, Milano o Roma, privata o pubblica. Certo che i grandi operatori europei (tedeschi e francesi in primis) ne abbasserebbero il rango, finendo per farle perdere il ruolo di compagnia di bandiera e indebolendo gli aeroporti italiani. Per tale motivo il governo pare intenzionato a recuperare un ruolo da protagonista per le ferrovie italiane (Fs). Infine c’è la raffineria di Priolo a Siracusa, un impianto che attualmente è in mano a una società russa, Lukoil, e che rischia la chiusura in relazione alla decisione europea di embargo ai prodotti russi. L’impianto garantisce il 20% della capacità di raffinazione per l’Italia. Anche questo polo industriale assume un valore centrale per l’economia nazionale in tempi di crisi energetica. La soluzione che va prendendo campo è quella di un intervento pubblico per rilevare il 100% della proprietà, sulla falsariga di quanto accaduto in Germania con un’azienda riconducibile a Gazprom.

A ciò si può aggiungere il fatto che, in considerazione delle difficoltà registrate, il ritiro dello Stato da Monte dei Paschi dirada le sue tempistiche, lasciando in mano pubblica il quarto gruppo bancario italiano. Da una parte il Governo rilancia il suo profilo liberista (non disturbiamo chi produce) dall’altra deve necessariamente intervenire proprio nelle attività produttive. Il paese si avvia a recuperare una funzione statuale in economia come non si vedeva da tempo. Una tendenza che va affermandosi anche a livello internazionale. Qualcosa vorrà pur dire.