Cultura

Lo Stato a guardia delle convenzioni chiamate confini

Saggi «Territori e potere» di Sabino Cassese per il Mulino

Pubblicato quasi 8 anni faEdizione del 28 dicembre 2016

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Anche a una rapida disamina della storia degli organismi politici, si osserva che terra, popolo e sovranità non coincidono mai esattamente fra loro. Anzi altrettanto spesso non coincidono neanche con se stessi. Persino l’emergere della nazione, forse la dimensione che ha più cercato di presentarli come omogenei, non è veramente riuscita ad avere ragione dei numerosi scarti che hanno caratterizzato i costituenti del politico. Si potrebbe dire che lo stato è nato per compensare, stabilizzare (lo dice la parola stessa: sostantivo che deriva dal participio passato italiano di stare e essere) proprio le criticità fra territorio, popolazione e potere. In relazione a ciò, da un lato lo stato cerca di risolvere la crisi e dall’altro lato si alimenta di crisi.

Lo stato è il tentativo di rendere statico, controllabile, governabile ciò che è intrinsecamente instabile. Detto in altre termini, lo stato vive del politico cercando però di regolarlo, neutralizzarlo. Se per lungo tempo è sembrato che il tentativo di neutralizzazione ha funzionato, fino a far parere che stato e nazione coincidessero, ciò non toglie che al fondo le criticità e gli scarti siano rimasti. L’orizzonte globalizzato odierno più che produrre la crisi statale l’ha fatta riemergere quale elemento fondamentale che da sempre caratterizza gli stati – come limite, ma anche come risorsa.

È forse in quest’ottica teorica generale che va inquadrato il libro di Sabino Cassese, Territori e potere. Un nuovo ruolo per gli Stati? (il Mulino, pp. 130, euro 12) che esamina l’evoluzione recente di cui lo stato è oggetto passivo, ma significativamente anche soggetto attivo. Attraverso dati e situazioni di questi anni la ricognizione di Cassese tocca le ambivalenze dello stato – in particolare quelle che riguardano i confini e le giurisdizioni territoriali – evidenziando sia quando esse sono contraddittorie fino a risolversi nell’anomia governamentale dello stato di eccezione, sia quando esse sono dialettiche e mantengono vivo il rapporto tra il giuridico e il politico.

Uno fra i tanti esempi descritti da Cassese di ambivalenza che si risolve nella paradossale istituzionalizzazione dell’eccezione è l’operazione di arretramento del confine cartografico con il Messico che permette agli Stati Uniti di avere una zona interterritoriale nella quale non si applicano le norme di cittadinanza e quelle riservate a profughi e migranti come invece avviene sul territorio nazionale.

Le zone di criticità che lo stato crea e subisce non sono sempre soltanto il segno negativo dell’incapacità del potere di regolare sul territorio la propria sovranità. Quale esempio positivo di criticità – e questa è forse la parte più interessante del libro di Cassese – viene citato il caso apparentemente debole e precario dell’Unione Europea che letteralmente «vive di crisi». A tal proposito Cassese scrive: «Nonostante il rivivere dei nazionalismi e le reazioni dei partiti populisti contrari all’Unione, ambedue i fattori di crisi attuale dell’Unione non sono governabili dai singoli stati. Quindi, sono sia fattori di crisi dell’Unione, sia fattori di sviluppo dell’Unione, perché gli Stati sono costretti a cooperare sotto la sua egida. La formazione di movimenti nazionali populistici antieuropei, se fa emergere opposizioni popolari all’Unione, produce anche l’effetto di politicizzare la costruzione europea, da fenomeno prevalentemente amministrativo a fenomeno sostanzialmente politico».

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